
FERNANDO VIANELLO, il Manifesto 08.12.2005
Quando, alcuni anni fa, mi sono accinto a scrivere una storia della facoltà di Economia di Modena, non ho trovato di meglio che iniziarla con queste parole: «Paolo Sylos Labini fu chiamato a insegnare Economia politica nella facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bologna nel 1960. Fu lì che io l’incontrai». Perché quella era stata per me l’origine di tutto. Sylos aveva allora quarant’anni, e aveva già scritto il suo libro più famoso, Oligopolio e progresso tecnico. Era fra i protagonisti di un vasto e profondo rinnovamento degli studi economici in Italia, l’interesse per il quale era alimentato da quel più generale spirito di rinnovamento che sembrava percorrere il paese.
La sua estraneità alla teoria neoclassica non avrebbe potuto essere più radicale. Il marginalismo, per lui, non era l’economia, ma la malattia che l’aveva divorata. L’economia non doveva essere intesa come una disciplina deduttiva che da pochi generalissimi postulati – la massimizzazione dell’utilità e del profitto – fa discendere tutte le possibili conclusioni sul comportamento individuale e collettivo (è la definizione di Samuelson dell’economia come «massimizzazione sotto vincolo»). Se l’economia doveva spiegare i processi reali, è a partire dall’osservazione, e non da astratti postulati, che essa doveva essere costruita.
L’esempio favorito di Sylos era quello della (allora) famosissima inchiesta condotta subito prima della guerra da un gruppo di economisti di Oxford, la quale aveva mostrato che le imprese manifatturiere lavorano normalmente in condizioni di costi marginali costanti (per dirla in breve, due lavoratori con due torni ubicati nello stesso capannone producono il doppio di un lavoratore con un tornio). Poiché studi successivi avevano sistematicamente confermato questo risultato, gli sembrava inaudito che la teoria non ne avesse, in generale, tenuto conto e che si continuassero (come si continuano) a infliggere agli studenti curve dei costi marginali crescenti. E che questo andamento dei costi venisse presupposto in ragionamenti che si pretendevano realistici, e che conducevano alla conclusione che non può aversi aumento dell’occupazione senza una riduzione dei salari reali. Non è questo, o qualcosa di molto vicino a questo, che gli economisti continuano a spiegarci un giorno sì e l’altro pure dalle colonne dei giornali?
Ma cosa insegnare, allora, agli studenti? Non gli si potevano propinare nozioni che si ritenevano erronee: sarebbe stato un tradimento. Ma non potevano neppure essere tenuti all’oscuro delle opinioni dominanti fra gli economisti di tutto il mondo. Così, le dispense che Sylos distribuiva ai suoi studenti si componevano di due parti: nella prima veniva illustrata la teoria neoclassica dell’impresa, nella seconda la si criticava. «Prima li corrompi e poi li redimi», aveva commentato affettuosamente Piero Sraffa quando Sylos gli aveva fatto omaggio di quelle dispense.
Ma non c’era altro da fare: presentare le diverse posizioni e incoraggiare gli studenti a formarsi un’opinione autonoma. Sylos, e già questa era una cosa straordinaria fra gli economisti, conosceva Smith, Ricardo e Marx: in un saggio aveva stabilito un interessante parallelo fra le idee di Marx sulla dinamica economica (sviluppo e ciclo) e quelle di Schumpeter. Parlava con trascinante entusiasmo del «fiume carsico» dell’economia politica classica, che, grazie a Sraffa, riemergeva ora alla superficie dopo un lungo percorso sotterraneo. Egli partecipava a pieno titolo a quello che ci illudemmo fosse un nuovo inizio nella storia dell’economia politica.
Vi partecipava, tuttavia, da una posizione autonoma, che non lo metteva in contrasto con altri protagonisti di quel movimento di pensiero, ma lo caratterizzava originalmente dal punto di vista delle scelte tematiche. Mentre altri si affaticavano sulla parte più astratta della teoria – il nesso che lega salario, saggio del profitto e prezzi normali delle merci – finendo talvolta per fermarsi a essa, quel che a Sylos stava a cuore era partire di lì per esplorare i vasti territori della crescita e del declino, dello sviluppo e del sottosviluppo, del progresso tecnico e della ripartizione dei suoi benefici. Ma nella prima metà degli anni ’60 Sylos non era solo il teorico capace di portare una ventata di rinnovamento nella morta gora dell’accademia italiana. Né solo colui che (per ricordare un merito minore ma non piccolo) aveva fatto conoscere al lettore italiano la Storia dell’analisi economica di Schumpeter. Era anche il naturale punto di riferimento di chi voleva che l’impetuoso sviluppo dell’economia (che veniva ottimisticamente proiettato in un futuro indefinito) fosse finalmente posto al servizio della crescita sociale e civile del paese.
Non mi riferisco qui al tempo dei primi governi di centro-sinistra. Perché quando il vecchio Pietro Nenni ebbe accesso alla «stanza dei bottoni», la borghesia italiana si era già, come tante altre volte, ricompattata su una linea conservatrice. Mi riferisco al periodo di preparazione al centro-sinistra – periodo, se mai ve ne fu uno, di speranza e di attesa. Di questa speranza e attesa recano testimonianza i due più significativi prodotti letterari di quegli anni: Lessico famigliare di Natalia Ginzburg (non inganni il fatto che sembra parlare di un tempo molto precedente) e la Nota aggiuntiva di Ugo La Malfa. «Siamo tutti figli della Nota aggiuntiva», ha scritto una volta Marcello De Cecco.
Bene. Sylos ne fu l’interprete accreditato e lo studioso che più di ogni altro cercò di tradurre il nuovo corso in concreti programmi e interventi. Si rilegga il libro Idee per la programmazione economica, scritto in collaborazione con Giorgio Fuà. (E’ un consiglio che do, in particolare, a coloro che sono impegnati nella redazione del programma del nuovo centro-sinistra.) E non si potrà non rimanere abbagliati dalla freschezza dell’elaborazione, dall’acutezza delle soluzioni prospettate, dall’attualità e dall’ingegnosità di molte proposte. Sono meriti che appaiono tanto più grandi, mettendo le cose in prospettiva, per l’assenza di studi consimili cui ispirarsi. E per la conseguente necessità di capire, prima di tutto, di quali informazioni vi era bisogno, di sforzarsi poi di reperirle e di forgiare autonomamente gli strumenti richiesti per la loro elaborazione.
Sylos ricordava con piacere una storiella che proprio io, diceva, gli avevo raccontato moltissimi anni fa, nella quale si parla di una persona che per cercare la chiave smarrita si mette sotto il lampione, «perché lì c’è la luce». Cercare la chiave dove c’è la luce, piuttosto che dove la si è effettivamente smarrita è il passatempo favorito dei ricercatori di tutte le discipline (avevo raccolto la storiella in un ambiente di fisici). Ecco. Lui è sempre stato uno che non cercava dove c’era la luce, ma cercava di far luce dove c’era qualcosa che meritava di essere cercato.
Anche a costo, diciamolo pure, di scottarsi le dita con l’accendino. Un esempio particolarmente calzante è fornito, a questo proposito, dal Saggio sulle classi sociali, la cui prima edizione è del 1974. Dove si avverte a ogni passo lo sforzo tenace, artigianale, di chi non ha a disposizione, già elaborate da altri e pronte per l’uso, le categorie concettuali di cui ha bisogno e non trova nelle fonti statistiche le informazioni preventivamente ordinate sulla base dell’uso che intende farne. E deve supplire con la forza dell’intelligenza. Assumendo, se necessario, dei rischi che, a voler seguire strade meglio battute (anche se meno interessanti), risulterebbero perfettamente evitabili.Ma quello che soprattutto emerge nel Saggio è il Sylos scrittore di cose morali, ultimo erede di una tradizione che risale a Ernesto Rossi e a Gaetano Salvemini (ai quali amava sempre aggiungere Giustino Fortunato, di cui era nipote).
In questa tradizione si iscrive il suo profondo rispetto per i lavoratori dell’industria e la sua avversione per la piccola borghesia famelica, per la sua attitudine a infiltrarsi in tutti gli interstizi della società, corrompendo e avvilendo ogni cosa, per la sua prodigiosa capacità di piegare a proprio vantaggio tutte le conquiste sociali e le stesse lotte degli operai (di cui, quando è il caso, non esita a porsi alla testa). «Contadini» e «Luigini», insomma, secondo la definizione di Leo Valiani riferita da Carlo Levi. Contro il mondo dei Luigini, contro il deserto di virtù civiche che esso rappresenta, contro il leader riconosciuto di quel mondo, Sylos si è sollevato nella sua età avanzata senza voltarsi indietro a contare quanti lo seguivano. Erano parecchi, ma lui sarebbe andato avanti anche da solo.
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