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1303849439di Luciano Barca (Il Ponte Anno LXVI, n. 2 , febbraio 2010)

C’eravamo conosciuti al liceo Giulio Cesare di Roma. Paolo era palesemente il leader della sua classe e aveva sempre attorno un gruppetto simpatico al quale a volte mi univo all’uscita. Poi ci eravamo ritrovati all’Università  La Sapienza, entrambi iscritti a Giurisprudenza, ma intenzionati a diventare economisti. Per questo avevamo scelto come riferimento Guglielmo Masci che insegnava Economia Politica e che passava per essere burbero e severo, ma che in realtà  seguiva con attenzione i suoi studenti e per essi organizzava, oltre alle lezioni, due seminari alla settimana.

Noi ci sedevamo accanto, nell’aula ad anfiteatro, e ci dividevamo il compito di prendere appunti. Io avevo inventato una mia stenografia e riempivo pagine e pagine con Paolo che mi sostituiva ogni tanto per farmi riposare e apprezzare la lezione. Il pomeriggio ci trovavamo a casa sua, in via Baglivi 2 , e, rifocillati dalla mamma e dalla sorella di Paolo, stendevamo il testo destinato, nelle nostre intenzioni, a diventare le dispense ufficiali di Masci. Non ci riuscimmo perché la guerra ci portò in zone diverse e al nostro ritorno non trovammo più il testo che avevamo steso e che in un momento di generosità  Sylos aveva dato in prestito ad un amico (uno del Giulio Cesare) perché recuperasse lezioni perdute.

Quando tornai a Roma, da Malta e dalla Marina, una delle prime persone che cercai fu Paolo. Lo trovai, laureato nel 1942, al Ministero dell’Agricoltura a collaborare con Fausto Gullo e Antonio Segni alla stesura dei primi decreti propedeutici di una vasta riforma agraria. Io ovviamente non ero laureato, ma a bordo del sommergibile con l’aiuto di generosi amici avevo cercato di studiare, avevo dato nelle licenze tutti gli esami mancanti e avevo anche presentato la tesi che Masci mi aveva assegnato nel 1942:”I danni dell’autarchia”. Che in tempo fascista era una bella tesi, degna dell’amore che Masci nutriva per Ricardo. Non era tuttavia piaciuta ad Ugo Papi (“troppo di sinistra” aveva detto il successore di Masci al mio rientro dopo la liberazione di Roma) ed io mi ero astenuto dal discuterla.

Paolo fece finta che io fossi laureato (avverrà  nel ’46) e ricominciammo a discutere, come una volta, alla scrivania, intagliata da temperini e macchiata d’inchiostro, sulla quale avevamo lavorato prima della guerra. Avevo visto a San Giorgio Jonico alcune grandi manifestazioni per l’occupazione della terra, Paolo era stato testimone della resistenza degli agrari ad ogni riforma e perfino alle prime misure in favore della cooperazione e questo ci unì nell’approfondimento di ciò che una seria politica agraria avrebbe dovuto fare. Poi mi appassionai alla politica e le nostre strade cominciarono a divaricare. La lontananza (ero diventato milanese e poi torinese) ridusse fortemente la reciproca frequentazione. Ci ritrovammo per festeggiare il suo primo grande successo: la pubblicazione di “Oligopolio e progresso tecnico” nel 1956 e poi la traduzione del suo saggio negli Stati Uniti, dove Paolo era stato visiting professor. Con essa Paolo diveniva nel 1962 uno dei pochi economisti italiani che fosse stato tradotto in inglese e per i tipi della prestigiosa università  di Harvard. Nell’intervallo aveva lavorato con Alberto Breglia alla redazione del Piano del Lavoro voluto da Giuseppe Di Vittorio.

Paolo ad Harvard non aveva solo studiato economia. Aveva frequentato Modigliani – che io conoscerò molto più tardi – e aveva conquistato l’amicizia di Gaetano Salvemini , il professore di Carlo Rosselli ed Ernesto Rossi, che, fuggito dall’Italia, insegnava ad Harvard. Di Salvemini amava tutto: il suo liberalismo, il suo socialismo, il suo rigore morale, il suo laicismo. E di Salvemini ammirava soprattutto l’intransigenza. Perché Paolo era un intransigente. Intransigente contro chi avviliva l’economia e la lezione di Smith e Ricardo. E intransigente con chi troppo mediava. Le sue collere, temperate da Marinella, erano famose. Bastava una grossolanità  o un giudizio che lui riteneva opportunistico per infiammarlo. Scattava dalla poltrona e quasi gridava il suo sdegnato no: anche nei confronti di parenti e vecchi amici, dopo un’allegra cena o nel vestibolo di un congresso troppo approssimato nei giudizi e pieno di ammiccamenti (così come a volte avviene nel mondo politico e anche in quello accademico).

Era una intransigenza che applicava in primo luogo a stesso. Resistendo alle pressioni dei Laterza, faticava a distaccarsi da un manoscritto e darlo alle stampe; non perché fosse un perfezionista dello stile, ma perché in ogni scritto cercava la verità  per sé e per gli altri. E’ grazie a questa gusto della ricerca – una ricerca spesso solitaria – che ha scritto libri che hanno resistito all’usura del tempo e che ancora oggi insegnano qualcosa. Il “Saggio sulle classi sociali“ ne è una prova. Il libro è un passaggio obbligato per chi finalmente voglia tornare a ripensare alla costruzione di un ” blocco sociale” attorno al quale ricostruire una politica di sinistra. E’ recente il riferimento ad esso di Arnaldo Bagnasco nell’invito e nel tentativo di tornare a ragionare sui ceti medi.

E’in nome dell’intransigenza e di un comune austero stile di vita che Sylos stimava Enrico Berlinguer e ne era diventato amico, nella sarda Stintino e a Roma. Berlinguer frequentava poche case, ma tra esse c’era casa Sylos. Eppure Paolo faceva poche concessioni anche a lui. Non è mai stato iscritto ad un partito: era un uomo laico di sinistra, ma sempre con una sua indipendenza di giudizio e d’azione, con una severa onestà  di intelletto e con una nettezza di posizioni , che talvolta poteva apparire presunzione e scarsa attenzione alle ricerche altrui, ma che lo preservava da contaminazioni, a volte inevitabili in politica. Fu su questa base che nel 1968 mantenne aperto, pur tra contraddizioni e remore, un positivo dialogo con Luca Meldolesi, uno dei riferimenti del movimento studentesco del 1968.

Quando Andreotti nel 1974 nominò Salvo Lima, già  oggetto di quattro richieste di autorizzazione a procedere, sottosegretario al Bilancio, Paolo Sylos si dimise dal comitato tecnico scientifico del Ministero. Il PCI, che lo aveva designato in quel comitato, fece un passo formale in appoggio a Sylos ed io stesso fui incaricato da Berlinguer di protestare e di chiedere ad Andreotti di compiere un gesto, affidando ad altro sottosegretario la delega per il Comitato, al fine di non privare il Ministero dell’apporto di Paolo. Fu tutto inutile e, passato qualche tempo, fu nominato nel comitato un professore che era iscritto al PCI. Paolo prese la nomina come un’offesa personale e per vari mesi ignorò sia Berlinguer che me.

Complesso, e oggetto di accese discussioni, è stato il suo rapporto con Marx. Quando, direttore di Rinascita, celebrai nel 1983 il centenario della morte di Carlo Marx, pubblicando, a cura di Bruno Schacherl, un libretto intitolato ” Lo scienziato Carlo Marx”, distinguendo la ricerca economica di Marx dalle posizioni politiche proprie del ’48, Paolo che ha sempre avuto come punti di riferimento Smith, Marx e Schumpeter , mi fece le sue congratulazioni. Ma prima e dopo , in due o tre occasioni, attaccò duramente Marx non come studioso, tuttavia, ma come uomo e come responsabile della ideologia marxista. Il suo era un rapporto di stima e odio. Stima per chi aveva ben approfondito la linea tracciata da Smih e perfezionata da Ricardo, per chi aveva dato un contributo fondamentale per approfondire la teoria delle crisi e, in generale, per la comprensione del modo di produzione capitalistico, odio per chi o per coloro che dell’approdo di Marx avevano fatto una religione. Ma, al di là  di ciò, ci univa la distinzione tra capitalismo e mercato.

L’oligopolio era una violenza fatta al mercato da chi era in grado di controllare il prezzo, ma non c’era capitalismo in cui il prezzo fosse determinato dalla libera concorrenza smithiana. Questo era il punto molto chiaro per Paolo, apparentemente lontano dal riflettere di Claudio Napoleoni sulla alienazione e sulla linea Ricardo- Marx-Sraffa , ma in realtà  convinto come Marx della necessità  storica del capitalismo e, allo stesso tempo, della necessità  di in suo superamento. Era in nome di questa comune convinzione che, pur sulla base di visioni strategiche non coincidenti, potemmo collaborare ad alcune iniziative. Importante fu il suo contributo nell’assemblea costitutiva di Etica ed Economia. E’ stato Sylos, un anno dopo il suo ingresso nell’Accademia dei Lincei, che ha collaborato a definire il programma della ricerca che l’associazione avviò nel 1990 che è tuttora arricchita dal volontariato e dalla scienza di giovani studiosi. Ma furono molte le analisi e le idee sulle quali ci confrontammo nel corso di lunghi anni.

Paolo fu un bravo organizzatore culturale ed educatore: prima di insegnare a Roma aveva insegnato all’Università  di Sassari, di Catania e di Bologna, ma fu l’Università  della Calabria quella in cui più si impegnò insieme a Beniamino Andreatta: era per lui non solo una battaglia per una scuola degna delle più alte tradizioni italiane – il progetto prevedeva la costruzione del primo e più importante campus universitario italiano e di una grande biblioteca – ma per un meridionalismo correttamente inteso e per il pieno rispetto della legalità  in ogni aspetto dell’opera, dalla costruzione del campus ai concorsi accademici. Fu allora in parte sconfitto – il potere e la mala usano sempre le stesse armi, dagli intrecci oscuri alle campagne populiste – ma ciò che l’Università  della Calabria oggi rappresenta è in buona misura dovuto ad Andreatta e a lui. Allora il tema dell’inclusione sociale e del rapporto tra politica di inclusione ed efficienza non era posto nei termini più rigorosi di oggi. Il meridionalismo era quello che la sinistra praticava nel nome di Gramsci e la Democrazia Cristiana in una posizione che oscillava tra l’assistenzialismo clientelare e la Svimez. Ma quella che Sylos condusse da Sassari a Catania a Cosenza fu esattamente una politica di inclusione del Mezzogiorno d’Italia.

Il contatto diretto con aree malavitose e con il populismo elemosiniero lo armò contro questi mali profondi e fu anche per questo che, negli ultimi anni di vita, scavalcando partiti, esitazioni e incertezze, fece della lotta al berlusconismo una sua ragione di vita. Da qui nasce il suo appello del febbraio 2001 insieme a Bobbio e Galante Garrone in difesa della democrazia, da qui nasceranno , quando le elezioni daranno la vittoria a Berlusconi, la sua collaborazione al giornale l’Unità  per indicare quali dovrebbero essere a suo avviso le scelte di un partito riformatore e, infine, l’ adesione al “Cantiere per il bene comune” insieme a Achille Occhetto, Giulietto Chiesa e Diego Novelli e l’appoggio alla lista per le elezioni europee che da tale Cantiere sarà  espressa nel 2004. Non condivisi tutte le sue scelte e glielo dissi, ma ne apprezzai l’impegno a fronte di chi, sottovalutando i piani di Berlusconi, coinvolse la sinistra in una inutile e dannosa costituente.

Paolo sapeva benissimo che talune posizioni lo avrebbero isolato nel mondo accademico, ma francamente non se ne curava e arrivava ad alzare la voce contro chi gli consigliava prudenza. Una prudenza che a suo giudizio assomigliava molto all’opportunismo. Nella sua visione la crisi politica che aveva travolto i partiti di massa si sarebbe presto intrecciata con una crisi economica di cui, nel 2002, individuava già  esattamente la causa più immediata nel dollaro e nel debito americano, ma che nasceva anche, e soprattutto, dalle violenze al mercato smithiano e dalla carenza di regole.

C’è una bella foto di Paolo che, con il viso aperto e sorridente emerge a riva da una nuotata subacquea nel mare di Stintino. Se non uscivamo in mare con il barcone di “zio Pietro” ( il fratello di Mario Berlinguer) prendevamo al mattino tutte le salmerie, ivi compreso il pranzo, e andavamo, con i Sylos, i Loy, i Chiarini, la comitiva dei Siglienti e dei Careri, ora alla Tonnara, ora a Coscia di Donna o alla spiaggia della Pelosa, secondo ciò che consigliava il vento. Puntuale, alle undici, Paolo si tuffava con il fucile a molla e si allontanava. Quando tornava con il viso sorridente significava che aveva pescato un sarago o un merluzzetto per il pranzo dei figli. E’ con quel sorriso di fine anni sessanta che mi piace ricordare il vecchio compagno di scuola.

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