
di Gustavo Piga e Sergio De Nardis, gustavopiga.it
L’enfasi rivolta in questi ultimi giorni ai primi dati positivi del PIL dell’area euro, sebbene comprensibile, rischia di rivelarsi ingannevole. Primo, perché per capire se siamo capaci di camminare sulle nostre gambe è bene attendere dati più precisi e capire se questa ripresina sia dovuta alla domanda estera extra euro o dalla domanda interna. La seconda sarebbe preferibile: indice di una indipendenza dalle fortune altrui e di una presa d’atto europea della necessità di mettere termine all’austerità con le proprie mani.
Secondo poi, è dalla gravità della crisi economica che rischia di avvenire quello che gli spread – in discesa o in salita non importa – ci rammentano quotidianamente: la fine dell’euro e dunque del progetto europeo. Una fine che potrà avvenire solo se lo stress e la disperazione delle condizioni lavorative in qualche Paese dell’area si protrarranno troppo a lungo e forzeranno i cittadini a pretendere dal Parlamento locale una uscita dalla moneta unica che dia una qualche, anche minima, maggiore parvenza di speranza.
Non sarà dunque tanto una ripresa del PIL a scacciare questi timori: da tempo e non solo in Europa si parla di “jobless recoveries”, riprese senza nuovi posti di lavoro. Sarà dunque essenziale, per tornare a sperare e capire se l’Europa sta facendo abbastanza per se stessa, osservare le dinamiche non tanto del PIL ma ancor prima del lavoro. Cercando di capire quali sono le cause di queste, così da suggerire le giuste politiche senza indugi e senza falsi ottimismi. A cominciare da quelle italiane.
Per la quale colpiscono, tra il gennaio 2012 ed il giugno 2013: a) la riduzione di quasi 500.000 occupati e b) l’aumento di circa 660.000 unità di persone in cerca di occupazione.
Una larga parte dei 500.000 occupati in meno sono persone che ora cercano lavoro ed è cifra, quindi, che fa parte anche dei numeri dei disoccupati. Si tratta principalmente di lavoratori appartenenti alle classi centrali di età (tra i 25 e i 54 anni), che costituiscono l’ossatura portante della struttura occupazionale del Paese. Difficile attribuire per questo segmento a mancanza di riforme strutturali un simile calo: qui c’è una sola spiegazione dominante ed è la mancanza di domanda interna all’area euro, solo in parte compensata dalla ripresa del resto del mondo. Tra i 500.000 occupati in meno ci sono poi i giovani con meno di 25 anni, che per una gran parte detenevano contratti flessibili, non più rinnovati a scadenza. Su di loro si è abbattuto l’impatto immediato della recessione, per la maggiore facilità e il costo nullo che comportava la cessazione del rapporto di lavoro. Quindi sono tutte perdite di posti di lavoro per Malgoverno, europeo. Non attribuibili a mancanze di riforme.
E non è detto che le riforme abbiano aiutato questi numeri a migliorare. Le flessioni soprattutto degli occupati giovani sono state in una certa misura amplificate dalla permanenza nei luoghi di lavoro degli occupati più anziani, a seguito della riforma previdenziale: dato il vincolo occupazionale venutosi a creare per questo segmento, risultato addirittura in crescita in piena recessione, la contrazione dei posti di lavoro imposta dalla caduta della domanda ha teso verosimilmente a scaricarsi sulla parte meno protetta degli occupati.
Infine un’ultima parte dei 500.000 occupati in meno, non va dimenticato, è ora fuori delle forze di lavoro perché scoraggiata oppure perché, in pensione, non è stata rimpiazzata. Che le aziende o le istituzioni non le abbiano sostituite può essere dovuto sia a mancanza di fiducia sulla ripresa (forse per motivi di competitività che non c’è più o anche qui per motivi legati all’austerità ), oltre che a riforme rivelatesi pessime per la congiuntura del mercato del lavoro (si pensi all’Università dove ormai ci vogliono 4 professori in pensione per autorizzare un giovane ad entrarvi).
Insomma indirettamente con riforme sbagliate o direttamente deprimendo la domanda interna, numeri significativi di occupati sono spariti e solo una piccola parte di questi può essere attribuita a ritardi strutturali del Paese.
Poi ci sono i 660.000 disoccupati in più, solo per una parte spiegata da ex-occupati in cerca di lavoro di cui sopra. Ad essi dobbiamo aggiungervi tutti i nuovi entranti sul mercato del lavoro che cercano un posto e non lo trovano. Sono per lo più giovani o persone entrate nella forza lavoro per tentare di sopperire alla crescente precarietà del lavoro del capofamiglia (che l’abbia perso o visto reso più flessibile). Questi nuovi disoccupati non trovano lavoro principalmente per la mancanza di domanda europea e, di nuovo, per riforme fatte che bloccano il loro ingresso: la riforma delle pensioni essendo la più rilevante di tutte, visto che ha portato le imprese a rinviare piani di assunzione spesso già previsti per mantenere al lavoro anziani in procinto di andare in pensione e invece trattenuti. Anche qui, un combinato di austerità e riforme rivelatesi sbagliate per modalità e momento di attuazione spiega pressoché tutto.
Se allarghiamo la prospettiva, vediamo che queste dinamiche del mercato del lavoro ci hanno ricondotto ai tassi di occupazione del 2000, annullando il miglioramento che si era avuto fino allo scoppio della crisi. E’ stata la caduta della domanda, non un malfunzionamento strutturale, a riportarci indietro di 13 anni. E la ripresa, di cui si comincia a parlare con qualche entusiasmo di troppo, andrà misurata col termometro del mercato del lavoro: non saremo mai veramente usciti dalla recessione e dal rischio di fine dell’euro e dell’Europa finché non ci saremo riportati sui livelli di occupazione e disoccupazione che avevamo nel 2007.
(22 agosto 2013)
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