
di Luigi Spaventa 19.12.2005
Senza memoria un nome, anche conosciuto, è un guscio vuoto. Vorrei cercare di riempire con un po’ di memoria il nome di Paolo Sylos Labini, morto una decina di giorni fa, affinché i tanto più giovani possano averne un ricordo.
Un economista. E un uomo vero
Jean Tirole nel suo Theory of Inustrial Organization, al capitolo 8, scrive: “il modello più famoso di barriere all’entrata è il limit-pricing model (Bain 1956; Sylos Labini 1962; Modigliani 1958)”. Tirole ha ragione, ma non è accurato nelle date. Oligopolio e progresso tecnico esce in edizione provvisoria nel 1956 (prima del libro di Bain) e nel 1957 nella versione definitiva italiana, che sarà tradotta con qualche revisione e qualche aggiunta negli Harvard Economic Studies nel 1962. L’articolo di Franco Modigliani (JPE, 1958) offre una formalizzazione dei risultati di
Sylos Labini (e di Bain), che, come usa dire, furono path breaking nella teoria dell’oligopolio.
Sylos Labini fu un ostinato economista quantitativo. Certo, non Var e Svar, non Garch e quant’altro. Ma raramente si muoveva senza raccogliere, elaborare, ordinare dati, a conforto e ispirazione delle sue elaborazioni. Più di trent’anni fa produsse un modello econometrico dell’economia italiana: un paleo-modello, oggi, ma uno dei primi allora, con quello bolognese di Nino Andreatta e quello anconetano di Giorgio Fuà.
Sylos Labini colloquiava incessantemente con i più giovani, anche quando accademicamente non era nessuno e lo si andava a trovare a casa di sua madre, e li incoraggiava ad andare fuori d’Italia, a nutrirsi di quello che egli chiamava il brodo di cultura e di dibattito che un’università anglosassone poteva offrire. L’accademia ufficiale gli frappose pesanti barriere all’entrata (che solo Federico Caffè e pochissimi altri cercarono di rimuovere). Era considerato, Sylos Labini, non omogeneo col sistema, quasi un rivoluzionario.
Rivoluzionario? Bisogna intendersi. Dell’ideologia, di ogni ideologia, da quella dei marxisti puri e duri a quella, più misera, degli studenti del ’68, era nemico insofferente; si ispirava agli economisti classici, ma non incoraggiò il programma della lost generation della disputa sulla teoria del capitale. Ma, per discendenza salveminiana e per fratellanza con Ernesto Rossi, non sopportava l’opportunismo perbenista ed era ragionato nemico di monopolisti protetti e di piccoli e grandi percettori di rendite private garantite dal potere pubblico: dei “padroni del vapore”, come li chiamava Rossi, degli incumbents, come si direbbe oggi; dei “topi nel formaggio”, come diceva lui. Da “onesto riformista”, come si definiva, voleva (come voleva Ernesto Rossi) “salvare il capitalismo dai capitalisti”, e anche l’Italia dagli italiani: un vaste programme, avrebbe detto Charles De Gaulle; ma un programma al quale Sylos Labini dedicò le sue energie, per comprendere mali e per suggerire rimedi.
Servono alla comprensione i suoi saggi, del tutto innovativi, sulle classi sociali in Italia, ove, con uno sforzo straordinario di raccolta e classificazione di dati, dimostrava “l’ubiquità della piccola borghesia” – di una piccola borghesia ambigua e instabile, spalmata fra destra e sinistra – come carattere peculiare della realtà italiana. Fece scandalo, a sinistra, questo abbandono delle partizioni tradizionali. E tuttavia quel contributo si rivelò uno strumento potente per comprendere tante caratteristiche, sovente degenerative, della storia recente e della politica del nostro paese.
Sylos Labini praticò incessantemente un riformismo di marca fabiana: quello che, se piove, cerca di trovare un ombrello invece di rinviare, bagnandosi, ai “ben altri” problemi che sono “a monte”. Rifiutò prebende e incarichi – semmai era incline a sbattere porte – ma passò tanto tempo a cercare problemi specifici a cui proporre specifiche soluzioni, di cui sollecitava l’accoglimento con ansia quasi missionaria.
Fu un economista vero; soprattutto – il che non necessariamente segue – fu un uomo vero, a tutto tondo. Paolo Sylos Labini merita memoria, e non solo il ricordo di un nome.
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