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ANNI SESSANTA
Quel rinnovamento mancato

di Joseph Halevi

Si era nel 1968, in pieno bailamme studentesco,
quando andai per la prima volta a trovare Paolo
Sylos Labini alla Facoltà  di Statistica. Non ero
studente di economia, ma da buon comunista
trinariciuto e assiduo lettore dei libri di Emilio Sereni
e della rivista Problemi del Socialismo, pensavo
allora che l’economia politica di Marx e dei marxisti
moderni fosse la scienza della società. In tale
contesto consideravo il suo Oligopolio e progresso
tecnico – un libro da premio Nobel – come la
formulazione più compiuta del problema del
capitalismo monopolistico contemporaneo. E le tesi
ivi contenute si integravano benissimo con quelle di
due marxisti coevi come Michal Kalecki e Paul
Sweezy. La differenza consisteva nel fatto che
mentre nei primi due autori il ruolo macroeconomico
dell’oligopolio è presentato sulla base di intuizioni,
in Sylos tale ruolo, che in assenza di stimoli esterni
è prevalentemente stagnazionistico, emergeva
dall’analisi riguardo alla connessione tra processi
produttivi oligopolistici e alla questione degli
sbocchi. Quel libro – pubblicato nel 1956, e tradotto
in inglese per la Harvard University Press nel 1962 –
non ha perso validità  analitica. Per la sinistra
italiana il volume di Sylos fu fondamentale in quanto
ruppe la visione statica delle analisi in termini di
«grandi monopoli» cui si aggrappavano tanto il Pci
che la Cgil. Il pensiero innovativo che in Italia si
sviluppò negli anni Sessanta – si pensi per esempio
al lungo articolo di Vittorio Rieser su Quaderni
Rossi, al libro di Camillo Daneo sull’agricoltura e lo
sviluppo capitalistico, ai dibattiti sulla rivista
trimestrale della Cgil Quaderni di Rassegna
Sindacale (allora magistralmente diretta da Aris
Accornero), nonché agli articoli pubblicati da
Problemi del Socialismo – deve molto alla
teorizzazione sviluppata da Sylos Labini. Di tutte
queste analisi poi la sinistra non fece niente, e
quella stagione finì anche grazie al terrorismo ed ai
servizi segreti «deviati». Così l’Italia divenne, per
usare il titolo del bel libro di Guido Crainz, Il paese
mancato. Se oggi non credo più che l’economia
nelle sue diverse forme sia la scienza della società 
– perché non penso che quest’ultima sia
scientificamente apprendibile – lo devo in parte a
Sylos Labini, sebbene siano stati necessari i tracolli
del 1991 per farmene rendere conto. Nel 1983 in un
postscriptum dell’edizione inglese del suo stupendo
saggio sullo sviluppo economico in Marx e
Schumpeter, Sylos Labini scriveva riguardo al
rispettivo ruolo delle forze economiche e culturali:
«Oggi non considero più le prime come dominanti
ma neanche una è subordinata all’altra», per cui –
aggiungeva – «ponendo le pure forze economiche
allo stesso livello di quelle culturali, non avrei potuto
vedere i conflitti economici, che nella concezione di
Marx sono sussunti nella nozione di lotta di classe,
come unicamente o assolutamente dominanti».
Pertanto, sosteneva Sylos, esistono altri conflitti –
da quelli religiosi a quelli etnici, a quelli culturali –
che devono essere studiati nella loro dimensione
propria: «La realtà  sociale che cerchiamo di capire
è estremamente complessa e una chiave che apra
tutte le porte non esiste». Scritte con riferimento a
un certo determinismo marxista, queste parole
acquistano una forza ulteriore se si pongono a
confronto con i discorsi di economisti e politologi
odierni, tutti imperniati sull’assolutizzazione del
mercato.

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