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2909ld1Cosma Orsi intervista Alessandro Roncaglia (Il Manifesto 23 dicembre 2012)

La prima vittima «illustre» della crisi è sicuramente la teoria economica dominante, che insegue il sogno di un equilibrio generale garantito dalla mano invisibile del mercato. Ma come accade nei risveglia, la realtà  smentisce sempre il «mondo perfetto». Per questo occorre una buona iniezione di «realismo» per ricostruire quella cornice stori- ca senza la quale è impossibile comprendere appieno l’attività  economica. La crisi va quindi considerata come una smentita di quel fondamentalismo liberista che tanto ha affascinato anche molti esponenti politici della sinistra.

Così le prime misure prese in soccorso delle banche trovano la loro legittimità  nella volontà  di frenare la valanga che stava investendo le società  capitalistiche. Questo però significa che il passo successivo è la definizione di nuove regole del gioco che mettano fine a quella comrpessione dei salari e alla crescita delle diseguaglianze sociali che ha caratterizzato il capitalismo contemporaneo.  L’analisi di Alessandro Roncaglia in questa tappa della serie «il capitalismo invecchia?» punta l’indice proprio verso quel fondamentalismo liberista che ha orientato la teoria economica mainstream .

Le domande fondamentali a cui gli economisti cercano una risposta possono essere riassunte così: qual è la natura di questa crisi; è una crisi finanziaria o reale, ciclica o sistemica? Ha senso un confronto con la crisi del ’29? 

La crisi ha inizio come crisi finanziaria, ma ben presto incide anche sull’economia reale, in modo tale da rendere ragionevoli i richiami alla crisi del ’29, pur con tutte le differenze. Come insegnava Keynes, che parlava di «economia monetaria di produzione» per descrivere il capitalismo moderno, il mondo della finanza e quello della produzione non sono entità  separate, ma interagiscono in modo stretto. Al di là  delle dimensioni di questa crisi, vale anche l’insegnamento keynesiano per cui ogni crisi ha una componente «sistemica», in quanto contribuisce a tenere i livelli di attività  e di occupazione inferiori a quelli che sarebbero stati possibili e non costituisce, a differenza di quello che insegna la teoria neoclassica, una semplice oscillazione attorno a un trend ottimale di crescita di lungo periodo determinato solo dai fattori di offerta, cioè tecnologia e disponibilità  di risorse.

Quanto ha giocato, nella loro incapacità  di valutare la probabilità  della crisi, la predilezione degli economisti mainstream per la formalizzazione matematica, a scapito della conoscenza della storia dell’analisi economica – e della storia in generale? 

Il problema non sta nella predilezione per la matematica, ma negli errori d’impostazione della teoria mainstream. In effetti, i teorici matematici dell’equilibrio economico generale sanno benissimo che nei loro modelli un mercato perettamente concorrenziale può dar luogo a una molteplicità  di equilibri (quindi a diversi livelli di occupazione) e che non è possibile affermare come verità  generale la stabilità  di tali equilibri (cioè il funzionamento equilibratore della mano invisibile del mercato). Naturalmente, la pretesa di generalità  ha un costo in termini di capacità  euristica: in sostanza, la teoria dell’equilibrio economico generale non riesce a dirci nulla di significativo sulle economie in cui viviamo, dato che qualsiasi risultato appare possibile a seconda delle ipotesi.

La macroeconomia mainstream è costruita sulla base di ipotesi semplificatrici, come l’esistenza di una sola merce (e, corrispondentemente, di un solo soggetto economico); solo così si può sostenere la validità  in generale di quella che nei libri di testo mainstream è considerata una verità  assoluta, l’esistenza di una re- lazione inversa tra salario reale e occupa- zione, con il corollario che la disoccupa- zione può dipendere solo da imperfezio- ni del mercato, come la forza «eccessi- va» dei sindacati o l’impreparazione dei lavoratori per i tipi di lavoro che sono richiesti.

Anche i nuovi filoni di cui tanto si par- la, come i «nuovi keynesiani», non fanno altro che introdurre ipotesi un po’ meno irrealistiche (frizioni nel funzionamento del mercato, conoscenza parziale e così via) nel contesto di modelli ipersemplificati (in gergo, modelli di equilibrio parziale) i cui difetti sono noti da decenni.  Come diceva Sraffa nel 1930 (proprio a proposito delle fondamenta teoriche di questi ultimi modelli), «Io cerco di indicare i presupposti impliciti nella teoria di Marshall; se Robertson li considera come estremamente irreali, io simpatizzo con lui. Noi sembriamo consentire in ciò, che tale teoria non può essere interpretata in modo da darle una coerenza logica interna, ed in pari tempo da metterla d’accordo coi fatti che si propone di spiegare. Il rimedio di Robertson è quello di scartare la matematica; forse avrei dovuto spiegare che, in proposito, la mia opinione è che si debba scartare la teoria di Marshall».

La storia del pensiero economico, tano vilipesa dagli economisti mainstream , sarebbe essenziale proprio per comprendere i diversi presupposti di altri filoni di pensiero radicalmente alternativi, come quello classico e keynesiano, e quindi evitare di cadere nella trappola in cui, secondo Sraffa, era caduto il neoclassico Robertson.

Da tempo commentatori autorevoli avevano fatto notare che la libera e frenetica circolazione dei capitali (risulta- to delle liberalizzazioni e deregolamentazioni della finanza) mina le basi stesse della democrazia economica, cioè della democrazia stessa. Ritiene che il ruolo della politica, oggi, dovrebbe essere soltanto quello di regolatore del mercato o dovrebbe spingersi più in là ? 

La regolamentazione del mercato forse non sarà  sufficiente, ma certo è necessaria ed è un compito di per sé difficilissimo da realizzare, dati gli interessi con i quali confligge: sarebbe opportuno concentrare l’attenzione su essa, senza escludere altri tipi di misure ma senza indicarle come la vera panacea. Ad esempio, non sarebbe tecnicamente difficile risolvere il problema dei «paradisi regolamentari», ma per ora non si sono fatti grandi passi in avanti in questa direzione, e nessuna regolamentazione nazionale della finanza ha un senso se questi paradisi continuano a esistere.

L’Italia ne ha uno molto particolare nel suo seno, il Vaticano (San Marino ritiene di aver fatto il suo dovere e di poter essere cancellato dalla lista grigia dell’Ocse per il solo fatto di aver firmato qualche accordo di collaborazione, con paesi come la Groenlandia, Andorra, il Lichtenstein): è assurdo pensare che le fughe in avanti di parte della nostra sinistra aiutino la destra conservatrice a eludere problemi scottanti come questo?

Molti studiosi ritengono che la soluzione della crisi non possa avvenire che sull’asse Washington-Pechino. E’ ipo- tizzabile che il modello europeo di stato sociale, se ancora di un modello europeo si può parlare, possa rappresen- tare un riferimento per politiche econo- miche alternative tanto al «Washington Consensus», quanto al capitali- smo di stato cinese? O c’è il rischio che nel futuro assetto economico-politico mondiale l’Europa (con il sud del mondo) venga confinata ad una posizione marginale? 

L’Europa ha già  perso molto terreno, e al suo interno ne sta perdendo moltissimo l’Italia (per avere un’idea della perdita di competitività  basta guardare alla differenza, limitata ma persistente, tra il nostro tasso d’inflazione e quello degli altri maggiori paesi europei).

Ma questo ha ben poco a che fare con il modello europeo (socialdemocratico, per l’esattezza: non si tratta di una parolaccia!) di stato sociale, che riguarda la scelta di preferire un livello relativamente elevato di imposizione fiscale in cam- bio di un livello relativamente elevato di prestazioni di servizi sociali. A patto di essere disposti a pagare i costi sociali dello stato sociale, la sua adozione – e il suo sviluppo, per il quale vi sono ampi margini – non costituisce motivo di perdita di terreno nella produttività, e quindi nella competitività  internazionale.

Naturalmente, pagare i costi dello stato sociale significa imporre il pagamento delle tasse sulla base di criteri sanciti da leggi democraticamente approvate: un risultato difficile da raggiungere proprio a causa dell’esistenza di «paradisi fiscali» che permettono ai più ricchi e alle imprese di evadere. Anche in questo caso l’abolizione dei paradisi fiscali va concordata a livello internazionale; se c’è la volontà  politica, almeno nei paesi maggiori, la cosa non è impossibile, dato che non si tratta di imporre a stati sovrani di accettare leggi decise da altri, ma di introdurre criteri di penalizzazione adeguati, ad esempio prevedendo che tutti i trasferimenti di fondi verso certi paesi non possano essere considerati come spese fiscalmente detraibili e che tutti i trasferimenti di fondi da certi paesi ven- gano considerati come reddito tassabile.

L’attuale aumento della spesa pubbli- ca non riguarda la spesa sociale (istruzione, sanità, pensioni e sussidi di disoccupazione), bensì il salvataggio di banche, società  finanziarie e grandi gruppi. Ciò avviene però comprimendo i redditi da lavoro (salari reali e pensioni): un intervento dal lato dell’offerta, anziché della domanda, è la giusta stra- tegia per uscire dalla crisi, tornando a livelli accettabili di disoccupazione? 

Come intervento di prima istanza, c’erano ben poche possibilità  di scelta.  E ora c’è il vincolo di evitare il rischio di una crisi del debito pubblico ed estero, uno spettro che minaccia vari paesi in modo ben più preoccupante che l’Italia, ma che neppure noi possiamo ignorare. Ed è comunque sbagliato sostenere che non vi siano stati interventi dal lato della domanda, un po’ in tutti i paesi. La cosa più importante ora è sta- bilire le nuove regole del gioco per evitare di essere nuovamente chiamati tra pochi anni a pagare i costi delle crisi causate da un fondamentalismo liberista che ha purtroppo influenzato anche tanti politici di sinistra. 

Personalmente sono convinto che nella contrapposizione tra il ministro Tremonti e i suoi colleghi di governo, più inclini di lui ad espandere la spesa pubblica, abbia ragione il ministro, dato il livello del debito pubblico e del debito estero del nostro paese e il ritmo al quale stanno crescendo. (Spero non vi sia bisogno di precisare che restano tan- ti altri motivi di disaccordo, con lui come con gli altri ministri, in primis la loro scelta di campo).

Quale sarà  il prezzo che le future gene- razioni dovranno sopportare, a fronte delle forme e delle dimensioni dell’in- debitamento a cui oggi i governi han- no fatto ricorso nel tentativo di non far naufragare l’economia mondiale?

  Prima ancora dei vincoli posti dall’aumento del debito pubblico (che possono essere superati in tempi anche brevi con il ricorso a una imposizione patrimoniale straordinaria o, con effetti distributivi opposti, con una fiammata inflazionistica), vi sono i costi di lungo periodo della crisi di cui preoccuparsi. Accanto all’aumento della disoccupazione, c’è un forte aumento degli inoccupati, cioè delle persone che non cercano lavoro. Le giovani generazioni sono le più colpite, con un aumento pesantissimo dell’incertezza sulla possibilità  di costruire progetti di vita rispondenti ai propri desideri.

Gli effetti sociali di queste vicende si faranno sentire molto a lungo, ed è anzi prevedibile che si faranno sentire con maggiore intensità  nei prossimi mesi, nella forma di un inasprimento delle tensioni sociali, in Italia come negli altri paesi. Sul piano economico occorre ricordare anche il rallentamento del ritmo del progresso tecnico, che è correlato alla crescita economica, e che si tradurrà  in un reddito pro capite (una ricchezza delle nazioni, come diceva Smith) minore di quanto sarebbe stato possibile.

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