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imagesPaolo Sylos Labini e  Alessandro Roncaglia hanno pubblicato il libro “Per la ripresa del riformismo” con l’Unità. Il libro è gratuitamente accessbile su qusto sito (cliccare qui). Ne riproponiamo dei brani

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Il mercato, dunque, è un’istituzione essenziale ma non può risolvere tutti i problemi di un’economia fondata sulla divisione del lavoro. Il mercato va accettato, e questo significa lasciare per quanto possibile autonomia di decisione ai singoli soggetti economici (anche per un motivo di principio: il rispetto del diritto di ciascuno a decidere quel che lo riguarda). Allo stesso tempo, il mercato non è il semplice insieme di atti di scambio: è un vero e proprio sistema istituzionale, ossia un insieme molto complesso di norme, consuetudini e costumi sociali che indirizzano il comportamento degli individui. Smith stesso sottolinea questo fatto: il mercato funziona se posso essere sicuro del rispetto dei contratti, ma anche se posso sperare che il cibo che acquisto non è adulterato dal commerciante alla ricerca di un guadagno extra. Il perseguimento dell’interesse personale, che tiene conto delle regole (e, più in generale, del nostro essere membri della società ), è ben diverso dal perseguimento dell’egoismo puro e semplice. In altre parole, il mercato può funzionare solo se i partecipanti rispettano in misura sufficiente un comune insieme di regole di comportamento, e se l’autorità  pubblica (polizia e giustizia) interviene a sanzionare i casi di deviazione dalle norme di buona condotta. La moralità , il civismo, sono essenziali al buon funzionamento di un’economia di mercato.

Molti economisti, come Einaudi (e Hayek), hanno sostenuto che il libero mercato è una base essenziale per la democrazia politica: solo quando i cittadini sono sufficientemente indipendenti, nella loro vita economica, dalle scelte arbitrarie dell’autorità  pubblica è assicurata loro la possibilità  di scelte politiche autonome, non condizionate dal ricatto di chi ha in mano, ad esempio, l’assegnazione di contratti, concessioni, posti di lavoro. Adam Smith (a differenza di quanto farà  in seguito Croce, in polemica con Einaudi) non distingue affatto tra liberismo economico e liberalismo politico: per lui si tratta della stessa cosa, del rispetto dell’autonomia decisionale del cittadino. Tuttavia una lunga tradizione, che prevale nella cultura conservatrice già  negli anni a cavallo tra Settecento e Ottocento, identifica il libero mercato con la semplice libertà  di decisione del soggetto economico. Lo stato è allora visto come un nemico del mercato, non come un complemento essenziale al suo buon funzionamento. Secondo questa posizione, se qualcosa non funziona la responsabilità  non è dei meccanismi del mercato, ma di chi resta disoccupato perché non accetta di lavorare a un salario inferiore a quello corrente, o dei sindacati che impongono un salario troppo elevato, approfittando del loro potere contrattuale che allontana il mercato dalle condizioni di libera concorrenza; i vincoli alle scelte dei soggetti economici, in particolare a quelle delle imprese, vanno limitati al rispetto dei diritti fondamentali (niente furti o omicidi, per intenderci), ma politiche quali quelle a difesa dell’ambiente vanno perseguite tramite incentivi e disincentivi, non tramite imposizione di regole. (I problemi ambientali rientrano fra i casi in cui il mercato non può essere lasciato a sé stesso; certo è possibile intervenire con incentivi e disincentivi, ma quando questi non funzionano o non bastano le regole sono inevitabili).

Abbiamo così due tipi di liberismo. Il primo vede nel mercato una istituzione sociale delicata, che va sostenuta nel suo funzionamento attribuendo importanza alla moralità  e alla legalità  dei comportamenti, e che in vari casi va affiancata dall’intervento pubblico proprio per assicurare che la coesione sociale, e quindi la sopravvivenza stessa della democrazia, non siano indebolite dai casi di ‘fallimento del mercato’. Il secondo tipo di liberismo contrappone l’autorità  statale all’individuo e tramuta la libertà  di scelta del soggetto economico in un principio assoluto di non ingerenza dello stato nella vita economica (‘laissez-faire, laissez-passer’). Talvolta ciò avviene sulla base di convinzioni teoriche che negano le possibilità  di ‘fallimento del mercato’ – ed è per questo che il dibattito teorico nel campo dell’economia è così importante-; talvolta, forse più spesso, sulla base di una radicata sfiducia nell’uomo, che secondo questa concezione accetta le sue responsabilità  e fa le cose giuste solo se costretto dalla dura necessità  economica (mentre, in quanto politico, è mosso solo dal suo tornaconto personale e solo a parole guarda all’utilità  pubblica).

Per inciso, un corollario importante di quest’ultimo aspetto è che per il liberismo ‘di sinistra’ la questione morale non può essere considerata un fatto privato, che riguarda la vita personale del singolo esponente politico ed è indipendente dalla bontà  delle sue posizioni strettamente politiche: la questione morale è parte cruciale di una posizione politica riformista, da liberale progressista. In realtà  poi, come insegna Smith, la questione morale è vitale per la sopravvivenza stessa dell’economia di mercato: assieme all’autoritarismo politico,
il liberismo selvaggio è, nel lungo periodo, il peggiore nemico della società  basata sulla libera iniziativa privata. Per fare un riferimento ai fatti di casa nostra, le leggi sulle rogatorie e sul falso in bilancio sono passi all’indietro, dai costi non immediati ma elevatissimi, sulla strada dello sviluppo di una robusta economia di mercato oltre che di una società  civile.

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