Paolo Sylos Labini, il coraggio dell’utopia
Un ricordo del grande economista e intellettuale spentosi all’età di 85 anni.
Ieri è morto Paolo Sylos Labini. Aveva 85 anni, un’età in cui è normale morire. Eppure avrei voluto davvero che potesse vivere ancora qualche anno. Mi dispiace tanto che sia morto, perché l’Italia di oggi ha molto bisogno di uomini come lui. Certo, rimangono le sue opere e il suo insegnamento, ma non avremo più la sua parola viva. Per chi lo ha amato e ammirato è una grande perdita; per chi invece è stato bastonato dalle sue parole, per chi è uscito umiliato anche solo dal confronto indiretto con la sua levatura morale, sarà probabilmente un sollievo, mascherato dietro le trite parole di circostanza che, in simili occasioni, non si rifiutano neppure al peggior nemico.
Non starò a ricordare l’elenco dei suoi libri e i tanti premi ricevuti nel corso della lunga carriera accademica. Altri sapranno farlo molto meglio di me e, in ogni caso, c’è il sito web a lui dedicato, ricco di tutte le informazioni biografiche necessarie a inquadrare il personaggio.
Vorrei piuttosto che rimanesse nella mente degli italiani il ricordo della sua dirittura morale, quella rettitudine propria dell’uomo libero, che lo spinse per esempio nel 1974 a dimettersi «dal comitato tecnico-scientifico del ministero del Bilancio, di cui faceva parte da circa dieci anni, quando Giulio Andreotti, ministro in carica per quel dicastero, nominò Salvo Lima come sottosegretario, che gia all’epoca era comparso varie volte nelle relazioni della Commissione parlamentare antimafia ed era stato oggetto di quattro richieste di autorizzazioni a procedere nei suoi confronti» [1].
Di Sylos Labini non è possibile tacere l’impegno civile degli ultimi anni, nel quale è centrale lo sforzo di rimarcare l’importanza delle virtù civili dell’onestà e della trasparenza per una politica e una democrazia sane e vitali, valori che riteneva minacciati oltre ogni limite dal progetto politico e dai metodi del governo Berlusconi. A tal proposito, voglio citare un brano da una lettera da lui scritta a Elio Veltri, e riportata nell’introduzione del libro Il topino intrappolato, di cui ho presentato tempo fa una recensione. Scrive Labini a Veltri in questa lettera del 21 ottobre 2004:
(…) Il mio maestro e amico, Gaetano Salvemini, attaccò Giolitti definendolo «ministro della malavita» per i metodi che usava nel Mezzogiorno al fine di procurarsi un buon numero – oltre centoventi – di parlamentari sicuramente fedeli; le sue documentate denunce non sono mai state smentite da nessuno; Salvemini in seguito affermò che non ritrattava il suo giudizio ma riconobbe che Giolitti impallidiva di fronte a Mussolini, che venne dopo Giolitti ed era di gran lunga peggiore. Oggi dobbiamo parlare di governo della malavita; anzi, considerati gli attacchi alla giustizia e il «premierato assoluto», la nostra sta per diventare la «repubblica della malavita»: massima impunità per i delinquenti, garanzie minime o nulle per le persone oneste e civili. Lo sappiamo bene, la corruzione, la prepotenza e la barbarie nel nostro paese, bello e infelice, non sono sorte né con Mussolini né con Berlusconi, ma hanno una storia antica. Dopo la seconda guerra mondiale, però, e dopo la Resistenza, che aveva un nucleo forte di persone civili e di grande valore, l’Italia si era messa su una nuova strada: il primo passo, assai importante, era stata la «nostra bella Costituzione», ora in pericolo mortale: erano poi stati compiuti altri passi sulla via lunga e difficile dell’incivilimento, fino a Craxi e al suo protetto, Berlusconi: da allora il cammino si è interrotto e ora ci troviamo in una situazione peggiore di prima, definibile con le stesse parole che subito dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale usava, con angoscia, Calamandrei, che poi fu uno dei padri della Costituzione: «La tragedia dell’Italia è la sua putrefazione morale, la sua indifferenza, la sua sistematica vigliaccheria». (…) Disperarsi sarebbe sbagliato perché la Resistenza, che ha espresso il meglio di questo paese, ha lasciato un’eredità che ora è coperta ma non annullata; e le persone civili, che sono tante, sono inerti perché sono scoraggiate, ma in tempi brevi possono tornare a operare.
Ma più che le critiche a Berlusconi e al berlusconismo, per capire l’uomo Labini è importante leggere il suo progetto economico-politico per il futuro dell’Italia. Lascio che siano le sue parole a dare la misura della sua umanità, quella di un economista non reso freddo dai numeri, ma che di quella scienza economica, che padroneggiava, aveva preso solo ciò che serviva per rendere all’uomo giustizia e, possibilmente, felicità. L’articolo che segue è stato pubblicato su L’Unità dell’8 settembre 2003.
Se la Sinistra ha il coraggio dell’utopia
di Paolo Sylos Labini
Destra e sinistra; conservatori e innovatori; gli utopisti sono gl’innovatori più ambiziosi. Le utopie sono idee-guida, non progetti concreti.
Oggi si parla molto di riformismo, senza però spiegarne il contenuto. Si è avuto uno scontro sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, una questione, a detta anche di molti industriali, che in sé non era molto importante, lo è diventata per ragioni politiche – la destra al governo voleva impartire un colpo di clava sulla testa dei sindacati; se mai occorreva legiferare sulle garanzie dei lavoratori atipici, che ne sono largamente privi. Riforma della pensioni: il discorso è in parte simile al precedente. Oggi è importante contrastare con forza gli attacchi del governo Berlusconi alla scuola, alla sanità, alla ricerca. Dobbiamo pensare fin da ora a “costruire il nuovo”.
Mi pare però che alla sinistra italiana manchi il coraggio dell’utopia. Grazie a quel coraggio la sinistra dei paesi scandinavi negli anni Trenta e, anche più ambiziosamente, la sinistra inglese dopo la seconda guerra mondiale si posero il grande obiettivo dello stato sociale e in Germania i socialdemocratici si posero anche l’obiettivo della cogestione delle grandi imprese. Eppure oggi grandi obiettivi non mancherebbero. E’ vero, per noi il problema preliminare è di superare la vergogna del governo Berlusconi. Ma bisogna fin da ora pensare a quando avremo ripreso il cammino dell’onestà civile e della dignità. Oggi, dopo i recenti segni di squilibrio mentale – i giudici matti, i giornalisti invidiosi – non è più prematuro riflettere su un futuro senza Berlusconi.
L’utopia sociale la troviamo nelle forme più diverse dall’Illuminismo in poi. La troviamo negli utopisti francesi e inglesi, in John Stuart Mill, che sviluppa, arricchendole, idee di Smith e di Bentham.
La grande utopia che ha segnato tutto il secolo scorso è stata quella di Marx. L’analisi riguardava i paesi avanzati, ma lo stesso Marx, dopo molte incertezze, aveva sostenuto che potesse avere un ruolo importante nei paesi arretrati, come la Russia; nella seconda guerra mondiale anche paesi non arretrati dell’Europa orientale entrarono nell’orbita russa. Nell’analisi di Marx troviamo tre errori madornali: il proletariato destinato a diventare la “stragrande maggioranza” della popolazione, la sua ineluttabile miseria crescente e la teoria del valore lavoro, che non regge. La dottrina marxista divenne la bandiera della lotta all’imperialismo americano e la base di penosi conati, in paesi arretrati, di pianificazione e di determinazione autoritaria dei prezzi per bruciare le tappe dello sviluppo. Marx raccomandava ai comunisti di adottare anche i mezzi più barbari per far trionfare la rivoluzione; ma i mezzi barbari necessariamente imbarbariscono anche i fini. L’utopia marxista si è conclusa con una catastrofe immane.
Fra gli utopisti del nostro tempo troviamo l’inglese premio Nobel James Meade. Possiamo includere anche Carla Ravaioli, che ha scritto vari libri, il più recente dei quali, pubblicato dagli Editori Riuniti, ha un titolo chiaramente utopistico “Un mondo diverso è necessario”; con una certa presunzione, fra gli utopisti mi ci metto anch’io.
Primo punto: la crescita economica. Andando contro la saggezza convenzionale, di destra e di sinistra, occorre mettere all’ordine del giorno l’obiettivo della crescita zero, obiettivo che non è affatto in contrasto con quello di abolire la miseria. La crescita economica ha sempre portato con sé costi umani di ogni genere; oggi sta originando problemi ambientali sempre più gravi. La crescita era stata raccomandata da Adamo Smith al fine di eliminare gradualmente la miseria, che porta al degrado dell’uomo. L’idea, in Smith appena accennata, era che oltre una soglia critica la crescita poteva rallentare e alla fine arrestarsi. E’ la tesi sostenuta in modo chiaro da John Stuart Mill. Ci sono però due problemi: l’eliminazione della miseria non è un fatto automatico, occorre una politica fiscale adeguata. Nei paesi industrializzati ciò in buona misura è avvenuto, attraverso i trasferimenti di bilancio volti ad attuare lo stato sociale. Nei paesi del Nord Europa il processo è pressoché compiuto; è lontano dal compimento nel più sviluppato dei paesi capitalistici, gli Stati Uniti, anche per il problema dei neri. Il secondo problema sta in ciò, che la crescita zero del reddito non implica la crescita zero della produttività, il cui aumento farebbe crescere i disoccupati. La via d’uscita sta in una riduzione delle ore lavorate, un processo che va avanti da almeno un secolo e mezzo, ma che occorre gestire con intelligenza e gradualità per evitare effetti opposti a quelli desiderati. Alla crescita zero del Pil può accompagnarsi l’aumento degli investimenti volti a ridurre progressivamente l’inquinamento e la crescita di attività culturali, che non incidono sulla produttività; né, preservato l’ambiente, sorgono problemi se il di più di reddito serve ad aiutare i paesi arretrati.
Nel corso del tempo la crescita zero può affermarsi man mano che viene abbandonato l’ideale tipicamente piccolo-borghese di rincorrere a tutti i costi i soldini, un ideale che oggi domina il comportamento delle classi medie e di un’ampia fetta della classe operaia – sempre più minoranza e sempre meno classe. A lungo andare questa ossessione, che risente del tempo in cui la povertà era la norma, probabilmente si andrà dissolvendo e sarà sostituita dall’aspirazione a lavori gratificanti e da altri ideali, fra cui sembra di grande rilievo quello di aiutare i paesi della fame. Non occorrono aiuti finanziari, fonte di sprechi e di corruzione; occorrono invece aiuti reali creando centri per la lotta all’analfabetismo, per la sanità e per la formazione di esperti agrari e industriali. Questi centri dovrebbero avvalersi della collaborazione di giovani volontari: già ce ne sono, ma bisogna farli crescere di numero e organizzarli molto più efficacemente.
Per tante ragioni i paesi industrializzati hanno interesse ad aiutare i paesi della fame, anche per i problemi ambientali, che in primo luogo dipendono dalle emissioni gassose provenienti dai paesi industrializzati; ma dipendono anche dai paesi in via d’industrializzazione e, nei paesi della fame, da processi di deforestazione e desertificazione. Questa è causata da diverse spinte; la più sistematica è data da popolazioni in rapida crescita: i contadini, non essendo capaci, per la loro ignoranza, di accrescere la produttività, allargano le aree coltivabili tagliando arbusti ed alberi, provocando così una deforestazione che prelude alla desertificazione, processo che gradualmente incide sull’ambiente del mondo. E’ necessario allevare esperti che insegnino come accrescere la produttività agraria. Al tempo stesso occorre agire sulla natalità, ben sapendo che gli ostacoli sono tre: l’analfabetismo delle donne, i divieti della Chiesa cattolica e, per vari intellettuali di sinistra, gli strascichi della dottrina di Marx, che detestava Malthus e le sue idee sulla popolazione, Quanto ai divieti religiosi, ricordo che le Chiese protestanti hanno abolito la condanna del controllo delle nascite da meno di un secolo e la Chiesa cattolica stava per farlo pochi decenni fa.
I paesi del Terzo mondo che hanno avviato processi importanti di industrializzazione – fra cui sono due giganti, Cina e India – sembra non abbiano bisogno di aiuti: questi paesi sono spontaneamente aiutati dalle imprese dei paesi sviluppati, che trasferiscono stabilimenti e uffici attratti dalle basse remunerazioni e dall’idea di creare teste di ponte commerciali.
La questione dell’ambiente deve essere ricollegata non solo ai problemi della desertificazione, ma, più in generale, alla grande questione dei paesi arretrati, specialmente di quelli che hanno appena avviato l’industrializzazione – ciò che Carla Ravaioli nel suo libro fa. Non bastano affatto gli accordi di Kyoto, peraltro disattesi dal più potente paese capitalistico. E c’è la questione, enorme, delle fonti di energia non inquinanti, a cominciare dalla sostituzione degli idrocarburi con l’idrogeno. Bisogna avviare subito un programma di drastici risparmi energetici, come quelli raccomandati da Tullio Regge e da Maurizio Pallante, ed occorre adoperarsi per far stanziare fondi per la ricerca e organizzarsi per contrastare i potenti interessi ostili. Le utopie più affascinanti riguardano la qualità del lavoro. Nella Bibbia è scritto “Ti guadagnerai il pane col sudore della fronte”. Oggi nei paesi ricchi di norma ciò non è più vero; oggi in tanti casi il lavoro non costa più fatica fisica, ma è monotono e ripetitivo – questo è il problema. La monotonia può essere contrastata dalla creatività: se chi lavora si sente partecipe delle operazioni produttive e non un mero esecutore, il suo lavoro diviene gratificante. Per Adamo Smith lavori particolarmente gratificanti sono compensati con retribuzioni più basse, una parte della retribuzione essendo data dalla soddisfazione che il lavoro stesso può procurare. Diventano allora rilevanti i diversi modi di partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese – sono diversi in relazione alle dimensioni delle imprese ed alle attività svolte. Oltre alla partecipazione vera e propria alla gestione, abbiamo forme di partecipazione alla produttività, ai profitti, alla proprietà delle azioni. Tutte le forme di partecipazione riducono i rischi di abusi e di imbrogli dei manager, che abbiamo visto attuati di recente in America. Nelle piccole imprese ancor più che nelle grandi conta la personalità dell’imprenditore; e ci sono molti imprenditori che sono anche leader, ossia hanno la capacità di guidare, animare, motivare gli uomini, indurli ad amare il lavoro che svolgono, sostiene un altro utopista del nostro tempo, Giorgio Fuà. La partecipazione dei lavoratori all’attività dell’impresa deve includere anche le innovazioni organizzative e tecnologiche, che conviene sollecitare coi mezzi più diversi. La ricerca deve essere combinata sempre più strettamente con la produzione. In questo quadro va considerata la riforma dei distretti industriali, sulla quale insisto da anni. Ogni distretto dovrebbe essere dotato di uno sportello “attivo” – un ufficio comune organizzato dalle Camere di commercio d’intesa con gli enti locali, al quale le imprese potrebbero delegare tutte le incombenze fiscali e burocratiche; il distretto dovrebbe disporre di un organismo per la ricerca applicata, creato d’intesa con una Università e col CNR. Il distretto dovrebbe fornire quei servizi collaterali capaci di surrogare le economie interne; ciò farebbe superare alle piccole imprese i limiti del “nanismo”. Conviene andare oltre l’economia creando in ogni distretto una casa della cultura, per dibattiti e conferenze, e un piccolo auditorium. Deliberata promozione di lavori gratificanti, anche con leggi e con l’azione dei sindacati; sviluppo della ricerca, che promuove lavori gratificanti; valorizzazione sistematica delle idee innovative che gli stessi lavoratori possono fornire ai manager; valorizzazione degli imprenditori-leader; creazione dei distretti integrati: sono tutti mezzi per moltiplicare le mansioni gratificanti e quindi non alienanti.
L’alienazione, individuata da Adamo Smith ben prima di Marx, ha finora contrassegnato il capitalismo. In prospettiva la fine dell’alienazione può significare la fine del capitalismo come lo abbiamo finora conosciuto.
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