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Noi viviamo in società basate sulla divisione del lavoro. Questo essenziale dato di fatto ha importanti implicazioni, alcune positive e altre negative. Adam Smith, che costruisce attorno alla divisione del lavoro la sua analisi della Ricchezza delle nazioni (1776), sottolinea innanzitutto un aspetto positivo cruciale: la divisione del lavoro è condizionata dal progresso delle conoscenze e, a sua volta, è alla base del progresso tecnologico e organizzativo; costituisce quindi la sorgente del benessere dei cittadini, che a sua volta è un prerequisito per lo sviluppo della civiltà. Smith, però, mostra anche come la divisione del lavoro sia la fonte della stratificazione sociale, cioè della suddivisione in classi e ceti della società connessa a disuguaglianze anche forti nella distribuzione del reddito e del potere, del ruolo nella società e del tipo di vita. Non solo: ben prima di Marx, Smith sottolinea che la parcellizzazione del lavoro può portare all’impoverimento dell’attività lavorativa, che costituisce parte essenziale della vita dei cittadini, fino a generare fenomeni di alienazione, impoverimento culturale, indebolimento del carattere.
Il dilemma tra aspetti positivi e negativi della divisione del lavoro può essere risolto in vari modi. La soluzione utopistica, adottata da Marx e tanti altri, consiste nel puntare al superamento della divisione ‘costrittiva’ del lavoro, in cui ciascun lavoratore è obbligato a svolgere un ruolo particolare nel processo produttivo. Lo sviluppo della tecnologia e di nuove forme di organizzazione politica e
sociale permetteranno di giungere a una situazione – quella che Marx chiama società comunista – in cui ciascuno sarà libero di
fare quel che preferisce, e ciascuno avrà quanto desidera per soddisfare i suoi bisogni materiali e le sue preferenze di stili di vita. Fra l’altro, la meta finale giustifica alcune asprezze della strada da percorrere: come la ‘dittatura del proletariato’, nella fase di transizione dal capitalismo al comunismo (che Marx chiama socialismo, appropriandosi di un termine già ampiamente utilizzato nel senso più generico di gestione del potere politico a favore dei ceti meno fortunati).
La divisione del lavoro potrebbe trovare un nuovo assetto, ben più soddisfacente di quello attuale, in un’economia in cui man mano prevalesse la cogestione dei lavoratori. La maggior parte degli economisti, degli scienziati sociali e dei politici ritiene invece che la divisione del lavoro non sia superabile. Né appare proponibile un ritorno all’indietro, a società preindustriali. Gli aspetti negativi della
divisione del lavoro, allora, vanno affrontati per limitarne gli effetti, pur nella consapevolezza che il loro sradicamento totale è impossibile. Di qui, ad esempio, la proposta di Smith di diffondere l’educazione elementare gratuita per combattere l’impoverimento culturale connesso alla parcellizzazione del lavoro. Di qui anche le successive proposte di una rete di sostegno pubblico per gli invalidi, i disoccupati, gli anziani, i poveri: il cosiddetto welfare state (che assume concretezza, nell’Inghilterra laburista del secondo dopoguerra, col ‘piano Beveridge‘). Di qui pure proposte più radicali, quale quella di Ernesto Rossi di un ‘esercito del lavoro’ al quale attribuire i compiti più ingrati, per suddividerli tra tutti i membri della società evitando che divengano condanna a vita per un gruppo limitato di persone.
Vale la pena sottolineare che interventi di questo tipo muovono da precise scelte di valore. Così, la piena eguaglianza tra tutti i cittadini non sarà realizzabile, ma per quanto possibile le disuguaglianze sociali vanno limitate. La democrazia, e quindi il diritto di ciascuno a determinare il proprio indirizzo di vita, costituisce un valore in sé, come costituisce un valore in sé la libertà politica. Inoltre, il riformismo si fonda sull’idea della possibilità del progresso: il mondo non sarà mai perfetto, ma può essere reso meno imperfetto. Interventi attivi in questa direzione sono necessari: le cose non vanno a posto da sole. Alla base, sono proprio queste convinzioni e queste scelte di valore che distinguono il riformismo progressista dalle politiche conservatrici di gestione dell’economia di mercato. (continua…)
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