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di Riccardo Bellofiore

Ci ha lasciati Luigi Pasinetti. Quella che segue in calce è la sobria nota della Società Italiana degli Economisti. Superfluo ribadire quanto gli dobbiamo un po’ tutte e tutti. Inclusa la mia vecchia sede universitaria (dove ci teneva sempre a venire), ed io stesso personalmente in mille occasioni.

Ricordo ancora lo stupore quando nel 2010 a Roma, ad un convegno su «Produzione di merci» in cui facevo da discussant a Gary Mongiovi, lui, che era il chair, e che il giorno prima era venuto a sentire Scott Carter, volle spendere qualche minuto della sua introduzione per pronunciare parole di forte curiosità ed incoraggiamento nei confronti di una prospettiva un po’ eterodossa sulle carte di Sraffa, come quella di Scott e mia, che non è che fosse stata troppo bene accolta.

[la foto con Napolitano è di quella occasione]

È bene comprendere non solo la tristezza del momento, ma il suo significato. Con Pasinetti se ne va l’ultimo – l’ *ultimo* – di una generazione di economisti italiani che non ha eguali, che hanno fatto la differenza tra gli anni Cinquanta e i Settanta del Novecento, e di cui ho detto qualcosa altrove.

Basta fare un elenco (sicuramente incompleto) dei nomi di chi ci ha lasciato per comprendere la soluzione di continuità: prima di Pasinetti, se ne sono andati Siro Lombardini, Paolo Sylos Labini, Claudio Napoleoni, Augusto Graziani, Federico Caffè, Pierangelo Garegnani, Giacomo Becattini, Marcello De Cecco, Giorgio Lunghini, Fernando Vianello, Andrea Ginzburg.

Tutti noi che veniamo dopo, sicuramente più bravi di loro nella autopromozione mediatica, meno nello scrivere libri e articoli classici che resteranno, siamo – come mi capitò di dire una volta – null’altro che poveri rappresentanti di una “decadenza”. L’età d’oro è la loro.

Avrà ragione il mio amico Giorgio Gattei a dire che, come nani, possiamo vedere più lontano dei giganti sulle cui spalle ci appoggiamo, ma non ne sono così sicuro.

Possiamo almeno provare a non sfigurare troppo, e a far parlare le cose che scriviamo, e non le comunità che promuoviamo, in una professione sempre più mediatica e, in fondo, sempre più noiosa, anche nel suo corno alternativo.

Una volta a Torino Giuseppe Bertola mi raccontò di un seminario di Paul Samuelson al MIT. Alla domanda di cosa ne fosse della disputa tra neoclassici ed i loro critici , Samuelson replicò (riadattando probabilmente una battuta che faceva regolarmente a lezione): «funeral by funeral, we are winning».

I mainstream possono permetterselo. Noi non possiamo accontentarci delle celebrazioni (col rischio di ritagliarci ciò che ci piace).

Ecco, come seppe fare quella gloriosa generazione di economisti italiani che portò avanti insieme teoria economica e storia dell’analisi, potremmo provare a non imbalsamare le verità del passato, ed evitare di inventare nuovi culti. Potremmo invece – soprattutto i più giovani, perché io, come dire, ho dato – mettere a frutto in modo creativo la miniera di innovazioni categoriali e di spunti interpretativi che troviamo nei loro scritti.

Occasioni come questa possono essere quelle in cui ci mettiamo all’ascolto di cosa ha detto e scritto chi ci ha lasciato. Magari trovandoci d’accordo su tanto ma non su tutto, e che sempre però ci fa pensare. Per questo vi propongo un lunghissimo estratto da una prolusione di Luigi L. Pasinetti del 1965: prima lezione del primo corso di Econometria in Cattolica. Chi ha pazienza e se lo leggerà avrà accesso ad un aspetto di Pasinetti che non emergeva molto in pubblico.

Il testo è stato pubblicato integralmente come: “Causalità e interdipendenza nell’analisi econometrica e nella teoria economica”, in: *Annuario dell’Università Cattolica del S. Cuore, 1964–65*, Vita e Pensiero, Milano, pp. 233–250.

CAUSALITÀ E INTERDIPENDENZA NELL’ANALISI ECONOMETRICA E NELLA TEORIA ECONOMICA

Prolusione al corso di econometria letta il giorno 25 gennaio 1965 dal ch.mo prof. Luigi Pasinetti, nominato in seguito a pubblico concorso professore straordinario di econometria nella Facoltà di economia e commercio dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.

Signore e Signori,

Non posso nascondere una certa trepidazione nel prendere la parola dalla prima cattedra di Econometria nel nostro paese. Sono conscio di avere da un lato il vantaggio della completa libertà dal passato e dall’altro il compito oneroso di plasmare l’inizio di un nuovo insegnamento e di chiedere, e dover giustificare, diritto di cittadinanza tra discipline dalle tradizioni centenarie e illustri.

Il movimento econometrico è così giovane da non avere nemmeno una storia: molti dei protagonisti che lo iniziarono sono tra noi. Fu intorno al 1930 che un gruppo di economisti e statistici rappresentanti praticamente tutto il mondo, con a capo il norvegese Ragnar Frisch (c’erano anche i nostri Amoroso, Del Vecchio, Gini, Umberto Ricci, Vinci), fondò la Società Econometrica Internazionale e iniziò la pubblicazione della rivista « Econometrica ».

[…]

Per comprendere l’iniziativa, bisogna tener presente che si era svolta in quegli anni una clamorosa controversia, sulle colonne della rivista « Economie Journal », in cui l’inglese Clapham aveva polemicamente definito gli strumenti della teoria economica schemi astratti, autentiche « scatole vuote » {empty boxes), belle, attraenti ed eleganti, ma prive di contenuto. Non è un eufemismo dire che la teoria economica era in crisi. E questo gruppo di economisti e statistici si convinse che la direzione da prendere fosse quella « dell’avanzamento della teoria economica nei suoi rapporti con la statistica e le matematiche » Se le scatole erano vuote – si pensò – l’unico modo per riempirle era di iniziare finalmente a dare espressione quantitativa, a misurare, le nozioni economiche teoriche, in uno « spirito metodico e rigoroso simile a quello che è prevalso nelle scienze naturali »

Era grande l’entusiasmo dei soci fondatori e sebbene gli sviluppi successivi non abbiano sempre corrisposto, e ovviamente non potevano corrispondere pienamente, ai voti e intendimenti dello slancio iniziale, tuttavia il movimento assunse presto proporzioni insperate, in certi paesi forse sproporzionate, come negli Stati Uniti d’America, dove ormai c’è da chiedersi se siano più gli economisti o gli econometristi.

Inizierò con la formulazione di due schemi logici: uno schema di relazioni interdipendenti, o simultanee, ed uno schema di relazioni causali. Il soffermarsi sulle caratteristiche contrapposte di questi due schemi potrà sembrare alle prime un passatempo ozioso. Ma coloro che avranno la pazienza di seguirmi nel ragionamento, si accorgeranno ben presto delle implicazioni profonde che seguono, non solo per l’analisi econometrica, ma per la teoria economica, e per la stessa comprensione delle relazioni che caratterizzano la società industriale in cui viviamo.

[…]

Viene spontaneo, prima di proseguire, domandarsi le ragioni di questa ostilità [verso gli schemi di relazioni causali]. Comunemente – e il prof. Wold vi ha particolarmente insistito – si sono ricercate nella tradizionale avversione degli empiricisti a riconoscere ogni rapporto di causa ed effetto. Una spiegazione, questa, certamente da prendere in considerazione, ma piuttosto generica, e in ogni caso non esauriente. Si potrebbe citare l’esempio di studiosi di stretta osservanza logico-positivista, come il prof. Herbert Simon del Carnegie Institute of Technology, che proprio recentemente hanno difeso l’uso di schemi di tipo causale su un terreno strettamente logico, come si è fatto nella presente lezione.

Non sono naturalmente mancate molte altre spiegazioni, in tono più o meno faceto e scherzoso: alcune persino in termini freudiani (dato che Freud è ormai diventato alla moda per ogni tipo di spiegazione). Tra le più divertenti, è quella che ne attribuisce la ragione al progresso tecnico. Gli americani — si dice -— hanno ormai calcolatori elettronici un po’ dappertutto; (nelle navi spaziali come nei taschini del panciotto dei direttori d’azienda), e con tanti calcolatori, devono bene inventare metodi di computo complicati per farli lavorare.

Come sempre, in queste occasioni in cui la discussione è così violenta, le ragioni non possono essere né generiche né superficiali. Sono di solito molto più profonde di quanto possa sembrare a prima vista. Nel nostro caso, mi pare, affondano le loro radici non già nei pregiudizi o umori degli econometristi, bensì nella teoria economicasu cui le formulazioni econometriche sono fondate.

Vorrei qui invitare gli amici economisti ad uno sguardo d’insieme all’evoluzione del pensiero economico negli ultimi 150 anni, alla luce dei due schemi logici qui presentati.

Ci si accorgerà subito che la teoria marginalista dell’equilibrio generale – che costituisce ancora oggi l’ossatura principale dell’economia politica che si insegna nelle nostre Università, e che, in particolare, negli Stati Uniti d’America non ha praticamente rivali – è essenzialmente fondata su un sistema di equazioni simultanee.

[…]

Non certo così era intesa la determinazione delle varie grandezze economiche negli schemi, teorici dei classici, nei quali non si avverte alcuna necessità che le variabili debbano sempre essere determinate in modo simultaneo. In effetti, la maggior parte delle spiegazioni emerge in termini uni-direzionali.

Si consideri, per esempio, la teoria centrale ricardiana –

quella della distribuzione del reddito globale tra i vari gruppi sociali partecipanti al processo produttivo. Vi troviamo una successione ben precisa nell’ordine con cui le categorie di redditi vengono determinate: prima i salari (in base alle necessità fisiologiche dell’esistenza), poi la rendita (in base alla variabile fertilità del suolo) e infine, come categoria di reddito residuale, i profitti.

Non farà meraviglia che, col ritorno ad alcune concezioni dell’economia classica — quale è avvenuto con le teorie keynesiane e post-keynesiane – concatenazioni di tipo causale siano di nuovo apparse nelle nuove teorie economiche.

[…]

Tutto ciò non significa che non ci siano delle relazioni di tipo interdipendente nelle teorie classiche e keynesiane. Si consideri pure lo schema keynesiano della generazione del reddito globale. Vi troviamo sì delle relazioni simultanee per la determinazione del saggio di interesse, degli investimenti totali e del reddito nazionale. Ma si tratta di sub-sistemi di equazioni simultanee che si susseguono secondo una catena causale. Il primo ad essere determinato è il saggio di interesse sul mercato del denaro (dalla scheda della preferenza per la liquidità e dalla quantità di moneta disponibile). Poi è il volume globale degli investimenti (determinato dal saggio di interesse e dalla scheda della efficienza marginale del capitale). E infine è il volume della domanda effettiva globale, e del reddito nazionale (col concorso degli investimenti — pre-determinati — e della propensione marginale a consumare).

E ancora: si pensi alla formulazione neo-ricardiana del processo produttivo recentemente presentata dal prof. Sraffa: un tipico sistema di equazioni interdipendenti; ma un sistema di equazioni interdipendenti che si trovano ad un certo punto di una catena di successione causale. Nello schema dello Sraffa, come in quello del Keynes, il saggio del profitto viene determinato prima di ogni altra relazione. Gli stessi prezzi naturali sono determinati in modo uni-direzionale dalla tecnologia del sistema, e – come in Ricardo – in modo indipendente dalla rendita. Sono questi, schemi compositi, come ho illustrato in precedenza con l’ausilio del sistema (III), in cui la successione causale si stabilisce, anziché tra equazioni singole, tra sub-sistemi di equazioni.

Il contrasto tra l’intero apparato logico del pensiero economico marginalista e quello della scuola classico-keynesiana, e la fiumana di discussioni che si sono svolte in proposito, si possono del resto proprio intendere in questi termini.

L’intera controversia tra indirizzo marginalista e indirizzo classico keynesiano, che da più d’un secolo sta imperversando nelle riviste e nei libri di economia, risulta dalla contrapposizione di due apparati teorici, l’uno dei quali è. espresso da uno schema logico di relazioni che sono necessariamente (e non potrebbero non essere, senza l’abbandono della teoria stessa) di tipo interdipendente, e l’altro è espresso da uno schema logico di relazioni che ammette un ordine causale.

Le discussioni che si sono svolte tra gli econometristi appaiono, in questo quadro, come un aspetto particolare di tutta una controversia più vasta, che sta alla base della stessa teoria economica. E’ un episodio particolare sì, e: pur, tuttavia interessante: per la prima, volta questi due schemi logici emergono a contorni ben definiti per esigenze di ordine concreto: quelle della quantificazione, o stima, dei parametri delle relazioni economiche.

[…] Se abbiamo due schemi teorici diversi, per l’interpretazione della stessa realtà economica, la verifica empirica – cioè il confronto con la realtà effettiva – dovrebbe saperci dire quale dei due è capace di interpretare la realtà in modo migliore. Questo sembrerebbe proprio essere il compito che si assegna agli econometristi. Invece i risultati sono stati deludenti. Nessuna indagine econometrica è riuscita finora ad introdurre alcuna discriminazione tra schemi di teoria classico-keynesiana e schemi di teoria marginalista. E questo è inspiegabile in termini di pura tecnica econometrica.

Le ricerche, in cui da allora sono stato costantemente impegnato, mi hanno sempre più convinto che occorre un radicale rovesciamento di posizioni se si vuole uscire da questa impasse. La mia convinzione è ormai che lo schema teorico marginalista e quello classico-keynesiano non sono due schemi alternativi per l’interpretazione della stessa realtà economica, come è comunemente ritenuto. Sono due schemi logici che sono stati elaborati per l’interpretazione di due aspetti diversi della realtà, o – se mi è permesso di porre la contrapposizione in termini netti e decisi – di due realtà economiche diverse —- l’una potenziale e l’altra effettiva — espresse certe volte con le stesse parole eppur distinte, confuse perchè sovrapposte e perchè l’una tendente all’altra.

In altre parole: ci sono delle relazioni economiche che sono così fondamentali in una società industriale da poter essere definite in modo indipendente dal quadro istituzionale-politico-giuridico che una società si è scelto. Si pensi alle interdipendenze strutturali che legano le branche industriali di un sistema economico; oppure alle relazioni tra aumenti della produttività media, aumento del livello dei salari, investimenti e livello generale dei prezzi. Queste relazioni si possono enunciare in termini di efficienza oggettiva o, come sono stati chiamati, in termini «naturali». Rimangono quindi le stesse in qualunque ordinamento istituzionale – che questo sia ad economia di mercato o che sia a programmazione centrale. Sono relazioni che di solito ammettono catene di tipo causale, anche se comprendenti sub-sistemi di tipo interdipendente.

Ci sono invece altre relazioni economiche che sono proprie, specifiche, dell’ordinamento istituzionale che una società si è scelto; nel nostro caso, che sono proprie dell’ordinamento di economia di mercato. Si tratta essenzialmente del meccanismo di determinazione dei prezzi di mercato, quali punti di equilibrio tra domanda e offerta, nel gioco contrapposto e simultaneo delle forze di mercato. Queste relazioni a differenza delle prime – non possono rappresentarsi se non con delle equazioni simultanee. Sono relazioni più immediate delle altre, più direttamente osservabili, e nello stesso tempo influenzate da tutto l’ordinamento istituzionale (non strettamente economico) di una società, proprio perché sono giustificabili solo in quanto tendenti a produrre posizioni di efficienza oggettiva, cioè le prime relazioni.

Sono state proprio, mi pare, le difficoltà che gli economisti teorici hanno incontrato negli ultimi cento anni ad accorgersi di questi due tipi di realtà economica che hanno dato luogo ai tanti malintesi e alle interminabili ‘discussioni. Ma se si accetta la distinzione proposta, i malintesi si sciolgono. Si spiega subito l’apparente insuccesso delle indagini econometriche a discriminare tra teoria classico-keynesiana e teoria marginalista. Evidentemente, se le due teorie si riferiscono a fenomeni economici diversi, i dati empirici che occorrono per mettere alla prova l’una sono diversi dai dati empirici su cui va giudicata l’altra.

L’inconveniente di questa impostazione è che richiede cambiamenti così profondi nelle elaborazioni di teoria economica da far esitare chiunque se ne renda pienamente conto, e far riflettere se non sia dopotutto più comodo e facile andar avanti con gli schemi tradizionali. Comporta infatti un lavoro enorme di ripensamento e di riformulazione che tocca tutte le branche della teoria economica, incominciando proprio – e questa è la mia interpretazione della ripresa degli schemi causali classici da parte della scuola postkeynesiana – dalla individuazione di quelle relazioni che sono valide indipendentemente dal quadro istituzionale.

L’occasione dell’inizio di questo corso di Econometria mi coglie proprio mentre sono impegnato con tutte le mie energie in questa direzione; in una ricerca che conduco da anni, di cui alcuni risultati sono già apparsi, ma che non potrà che tenermi impegnato per molti altri anni. La via da percorrere è lunga. Aggiungere che è ardua suona un luogo comune: quando ne ero all’inizio mi sembrava quasi impossibile. La vorrei indicare, soprattutto ai giovani, come una via su cui, per andare avanti, occorrono idee nuove. E ancora non basta: bisogna, di queste idee nuove, non aver paura. Bisogna non temere di sperimentare e di pensare anche secondo schemi che non sono quelli tradizionali.

E’ con questa esortazione, e con questo impegno, che vorrei terminare questa mia lezione inaugurale

[…]

Resisterò invece alla tentazione di elencare in pubblico i numerosi studiosi ai quali sono legato da sentimenti profondi di gratitudine per lo stimolo, l’incoraggiamento e l’aiuto ricevuti in questo mio peregrinare da un paese e da un continente all’altro. E’ una lista che è diventata molto lunga, dal giorno in cui, studente del secondo anno, pensando alla ricerca, capitai in un Istituto di Economia in effervescenza e presi i primi contatti col prof. Vito, sotto la cui direzione – completamente usurpata da un giovane docente chiamato Lombardini, cui tanto debbo – svolsi la mia tesi di laurea.

Quelle, di queste persone, che non sono qui presenti, sono tante e tanto illustri che porre in pubblico il mio nome accanto al loro mi suonerebbe più sfoggio immodesto che espressione di riconoscenza. A quelle altre, non meno illustri, che oggi hanno voluto onorarmi della loro presenza, sono legato anche da vincoli di affetto che l[i] accomuna[no] nel mio pensiero alle persone a me più care; a quelle persone che sanno qualcosa di più, o di diverso, di quanto non .appaia dagli articoli, brillanti sulle riviste internazionali, dai contributi scientifici e dai riconoscimenti accademici. Sanno che dietro tutto questo c’è una persona, fatta di umanità fragile, che per poco si sconcerta: sbaglia, gioisce e soffre. Per queste persone, non c’è bisogno di parole: basta uno sguardo, mentre la commozione sale e non lascia parlare.

Ma non è certo questo il luogo per fare concessioni agli attimi di smarrimento. È avanti che vorrei guardare in questo momento, immaginandomi la lunga schiera di studenti, in mezzo ai quali sono ormai destinato a trascorrere la mia vita terrena, Ad essi debbo oggi un impegno di insegnamento e di guida, nei limiti delle mie povere possibilità umane. A loro va il mio pensiero nel concludere. Pensiero a cui aggiungerò un augurio: un augurio molto semplice, che rivolgo a tutti i miei studenti e – perché no? dato che oggi tocca a me essere al centro dell’attenzione – a me stesso: buon lavoro!


La Società Italiana di Economia esprime il proprio cordoglio per la scomparsa del socio Prof. Luigi L. Pasinetti.

Luigi L. Pasinetti (1930-2023) è stato uno degli economisti italiani più conosciuti e apprezzati a livello internazionale.

Si è laureato in Università Cattolica, ha conseguito il PhD a Cambridge (UK) e svolto attività didattica e di ricerca presso le Università di Oxford e Harvard.

Ha ricoperto la cattedra di Econometria e di Analisi economica presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove è stato nominato Professore emerito.

E’ stato Socio dell’Accademia Nazionale dei Lincei, membro fondatore della STOREP e Presidente della European Society for the History of Economic Thought (1995-97).

E’ stato Consigliere (1989-1992), Vicepresidente (1983-1986) e Presidente (1986-1989) della Società Italiana di Economia.

I funerali si terranno venerdì 3 febbraio p.v. alle ore 11:00 presso la Parrocchia di Santa Maria di Caravaggio (Via Francesco Borromini, 5) a Milano.

La SIE si associa al lutto dei familiari e di tutta la comunità accademica.

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