
Oggi, 30 ottobre 2020, cade il centesimo anniversario della nascita di mio padre Paolo Sylos Labini (PSL). Come Associazione Paolo Sylos Labini abbiamo pensato di pubblicare un po’ di materiale per dare visibilità all’evento e per questo abbiamo chiesto ad alcuni economisti e amici di PSL, che abbiamo ritenuto essere a lui affini, di contribuire a questa iniziativa indicandoci un articolo/brano di PSL o su PSL particolarmente significativo, da far uscire sulla pagina web dell’Associazione eventualmente corredato da un breve cappello introduttivo che ne motivi la scelta.
PSL ha avuto una vita lunga ed intensa, nell’ambito scientifico, pubblico, politico e familiare (unico cruccio dello scrivente è che non ha conosciuto le nipotine) ed il bel libro intervista di Roberto Petrini “Un paese a civiltà limitata” ne ripercorre i passaggi chiave, e qui di seguito ne riporto qualche brano insieme con qualche foto che ho trovato negli album di famiglia curati da mia madre Marinella.

Petrini: Avere una famiglia dichiaratamente antifascista sarà stato di sicuro scomodo.
PSL: Condizionò una mia scelta fondamentale. Al momento di andare all’Università avevo intenzione di iscrivermi a ingegneria, perché ero attratto dalla tecnologia e dalle invenzioni. Mio padre voleva lasciarmi libero di scegliere, ma all’atto pratico dovetti optare per giurisprudenza, facoltà in cui non era obbligatoria la frequenza e che mi permetteva di continuare a lavorare; inoltre, il corso di studi era più breve e costava meno tasse. Mio padre che, come le ho accennato, per ragioni politiche, non di età, era ormai pensionato e aveva mezzi limitati, mi disse: «Mi spiace, ho fatto i conti e non puoi iscriverti a ingegneria». Fui costretto a riconoscere che i suoi argomenti erano valisdi. Tuttavia non ho rimpianti, soprattutto perché lafacoltà di giurisprudenza mi consentì di studiare materie come storia del diritto romano o storia del diritto italiano.

Petrini: Con l’8 settembre 1943 molti vizi italiani vennero inesorabilmente allo scoperto: caos, pasticci, vigliaccheria. Ne ha sempre parlato poco, ma a quel punto il giovane economista diventò un partigiano?
PSL: Le cose andarono così. Fui nominato ufficiale nell’estate 1943 e destinato a Firenze. Detti subito prova delle mie intemperanze: per tradizione parecchi giovani ufficiali facevano la spacconata di presentarsi al comando con un giorno di ritardo. Lo feci anch’io. Dovevo essere lì il 5 settembre ma mi presentai il 6. Il colonnello ci convocò e minacciò di inviarci al fronte per punizione. Non seppi tenere la bocca chiusa e risposi sarcastico: «Ma non è un onore?». Due giorni dopo, il fatidico 8 settembre, andammo dallo stesso colonnello a chiedere ordini, ma lui era un vigliacco e non ce ne diede: il re, come è ben noto, era scappato ordinando al capo del governo, Badoglio, di fare un proclama deliberatamente ambiguo. Dovevamo decidere per conto nostro: molti si misero in borghese. Io, da bastian contrario, continuai a indossare la divisa, ma quando un caporale tedesco, il 10 settembre, mi salutò per strada capii che era ora di lasciare tutto. Tornai a Roma e mi misi alla ricerca dei partigiani. Incappai in un gruppo formato da ufficiali dei Carabinieri che avevano una caserma in via XXI Aprile, si chiamava «Gruppo Bande Armate Monte Sacro Sant’Agnese». Mi fecero un lungo interrogatorio prima di accettarmi tra loro, scoprii in seguito che erano monarchici; persone molto serie, tant’è che, quando alcuni di loro furono catturati, non fecero nessun nome, neanche il mio. La pistola che mi ero procurato, e che sarei stato disposto a usare, non mi servì.

Petrini: E per lei? La scelta fu ambiziosa: studiare con Joseph Schumpeter, uno dei pilastri nella storia del pensiero economico. Ha già accennato al suo primo incontro con testi dell’economista tedesco sullo sviluppo eco-nomico e sull’innovazione tecnologica. Ma perché volle andare a studiare con lui?
PSL: Fu una mia scelta: nel preparare la bibliografia della mia tesi mi accorsi che solo lui aveva affrontato in modo sistematico la questione delle innovazioni evolevo assolutamente conoscerlo. Feci domanda per una borsa di studio all’Institute of International Education di New York, ma arrivato negli Stati Uniti, nel settembre 1948, scoprii che la direttrice, una vera virago, mi aveva destinato a Chicago. Ci rimasi solo tre mesi, e conobbi Franco Modigliani, ma poi riuscii ad andare ad Harvard dove c’era Schumpeter.

Petrini: C’è una Italia diversa, se vogliamo minoritaria, attaccata ai valori, all’etica, alla libertà e alla giustizia.Come si avvicinò a quel clima, come conobbe i Salvemini, gli Ernesto Rossi, i Calamandrei?
PSL: Fu mio padre, pugliese, vecchio salveminiano, ascrivermi una lettera di presentazione per Salvemini.Con quella, nel 1948, mi presentai a lui ad Harvard dove insegnava storia. Accadde che avevo trovato una stanza in un cottage in una zona bellissima, immersa nel verde, non distante dall’Università: si liberò una stanza occupata da una ragazza e Salveminivenne a vivere nel cottage dov’ero io. Così la mattina vedevo Salvemini e, più tardi, spesso, Schumpeter. Ogni giorno, approfittando del breve tragitto che facevamo insieme dalla casa all’Università, mi preparavo una domanda e cercavo di fare tesoro della risposta. Fu un rapporto come tra un nipote e un nonno: quando fu ricoverato in ospedale, non potendo scrivere, mi dettava le lettere che indirizzava a personaggi di ogni genere, tra cui ricordo Carlo Sforza e Luigi Sturzo. Gli feci da segretario.

Petrini: Fu lui che le consentì di incontrare Ernesto Rossi?
PSL Fu nel 1951. Salvemini venne a Roma ospite di Ernesto, che conobbi in quella occasione. Sul momento non ci fu alcuna esplosione di passione amorosa; ci avvicinammo quando scrissi un articolo, sotto forma di una lettera dall’America al mio professore Breglia, assai impertinente di critica a Keynes. Scrissi che quella keynesiana era stata una rivoluzione simile a quella francese, dove molte brave persone avevano perso la testa. Allora Ernesto cominciò a invitarmi, e io, ancora scapolo, andavo da lui tutte le sere. Abbiamo continuato a vederci molto spesso con la moglie Ada e con mia moglie Marinella, che avevo sposato nel 1960, anche in seguito. Piacevo molto alla sua cagnetta: quando arrivavo si commuoveva e per la gioia faceva la pipì.

Petrini: In quegli anni cominciò anche la sua collabora-zione al «Mondo» di Pannunzio.
PSL: Ernesto mi presentò a Pannunzio, che mi chiese di collaborare; mi dava 30 mila lire per articolo, una manna per me, ma scrivevo raramente, perché non ho la penna facile. In quegli anni iniziai anche la collaborazione col «Ponte» che ancora continua. Fu Salvemini a mandare il mio primo articolo a Calamandrei che conobbi in seguito a Firenze: era un personaggio straordinariamente colto e brillante, ricordo che raccontava barzellette e aneddoti gustosi, oltre a essere un grande giurista.

Petrini: Sulla sua strada arrivò la questione del petrolio e fu l’occasione per un nuovo viaggio di studio negli Stati Uniti. Del resto dell’«oro nero» negli anni Cinquanta si faceva un gran parlare, c’era Enrico Mattei all’Eni.
PSL Il presidente del Consiglio di allora, Antonio Segni, affidò a me, economista, e a Giuseppe Guarino,giurista, l’incarico di andare negli Usa per studiare l’industria del petrolio. Si era scoperto infatti che in Italia c’era del petrolio, e si doveva fare una legge per regolarne l’estrazione. Gli americani, la Shell, l’ambasciatrice Claire Booth Luce premevano perché fosse simile a quella vigente nella Libia di Idris, di tipo coloniale, che contemplava lunghi periodi di permessi per le ricerche e nessun limite alle aree di sfruttamento. Fu Paul Rosenstein Rodan, un economista polacco-inglese-americano amico di Einaudi e Saraceno, che collaborava col governo italiano, a suggerire una soluzione: dovete fare una legge come quella degli Usa, che tutela fortemente l’interesse pubblico; se la fate simile, sosteneva, non potranno dire che non va bene. Così nacque l’idea della missione da affidare a un economista e a un giurista, idea che a Mattei piacque poco, soprattutto perché era fuori del suo controllo.

Petrini Scusi, quando parla di Giuseppe Guarino si riferisce al «mago» del diritto amministrativo, democristiano, già ministro delle Partecipazioni Statali all’ini-zio degli anni Novanta?
PSL Sì, proprio lui. Ma allora era considerato un pericoloso sovversivo in quanto pochi anni prima era stato leader degli studenti comunisti a Napoli. Segni chiedeva spesso consigli, in via privata, a Ernesto Rossi, e quando gli chiese se conosceva un economista da inviare in America per studiare l’industria del petrolio, lui fece il mio nome. L’altro prescelto, Guarino, era stato professore a Sassari e lì Segni, sassarese, lo aveva conosciuto. Quando si seppe di quella missione apparve un articolo sul «Sole» in cui si osservava che «un primo ministro conservatore, sia pure illuminato, stava inviando in America due noti sovversivi per una missione delicatissima». L’autore dell’articolo concludeva: «È la torre di Babele, non si capisce più nulla».

Petrini: Il boom italiano stava rallentando inesorabilmente, i socialisti entravano nell’area di governo, era il momento della Programmazione. Nel 1962, ai tempidel primo governo Fanfani-La Malfa di centro-sinistra non organico, fu creata una commissione presieduta da Pasquale Saraceno che doveva definire le prospettivedell’economia italiana. Di quella esperienza, alla quale lei partecipò direttamente, si è detto tanto. Ma fu un vero fallimento?
PSL: Il fallimento c’è stato nel senso che le riforme da noi proposte non sono mai decollate. Il rapporto che elaborammo Giorgio Fuà e io indicava linee-guida diuna politica economica di medio periodo, ma in realtà era un programma di riforme, dal fisco alla scuola alla pubblica amministrazione. Riforme che poi, in modo un po’ demagogico, sono state chiamate riforme distruttura e che partirono in misura limitata e inade-guata. Sbagliammo soprattutto nel credere che l’apparato pubblico fosse meno inefficiente e meno bacato. Del resto, Ernesto Rossi me lo diceva sempre:«Che andate a programmare con questa pubblica amministrazione?». Io replicavo che, di fronte all’esigenza di una politica economica organica, sarebbe apparsa chiara a tutti la necessità di una riforma della burocrazia e degli apparati fiscali e che la classe politica sene sarebbe resa conto nel suo stesso interesse. «Ti illudi», faceva lui. E debbo dire che aveva ragione

Petrini Chi ricorda della squadra che lavorava allora alla Programmazione?
PSL Ci chiamavano «la banda degli onesti». C’erano Luigi Spaventa, Beppe Carbone, Giorgio Ruffolo, Manin Carabba. Tutte persone perbene

Petrini Con una certa dose di coraggio in quegli anni siaprì un dibattito sulla necessità di incidere sul costo del lavoro, si diceva che le svalutazioni competitive della lira non potevano più essere considerate la via d’uscitadell’Italia. Su «Repubblica», soprattutto, si moltiplicano gli interventi suoi e di Ezio Tarantelli.
PSL Il merito di aver avviato quel dibattito fu di UgoLa Malfa, e poi di Franco Modigliani, mio e di Ezio Tarantelli. Dicevamo cose convergenti, le scrivevamo sulla «Repubblica», andavamo spesso d’accordo. Ma il merito di programmare l’inflazione, quella idea assai brillante fu di Tarantelli: un’idea semplice e geniale perché per un economista l’inflazione è un male da combattere, non una cosa da programmare; tu non programmi la polmonite, cerchi di programmare la cura. Invece ebbe un grande successo perché si trattava di rendere minima l’inflazione: annullarla non era possibile. La scala mobile costituiva un meccanismo inflazionistico e per di più contribuiva all’aumento del debito pubblico. Stimai con una equazione che ogni punto di inflazione significava un punto in più di tasso d’interesse con gravi conseguenze sul deficit di bilancio attraverso l’aumento delle cedole dei titoli di Stato. Quindi ridurre l’inflazione significava decongestionare l’onere del debito.

Petrini: Le vostre posizioni non sfuggirono ai terroristiche vi misero nel mirino e il 27 marzo 1985 ucciseroTarantelli.
PSL: Fu terribile, ricordo che appresi la notizia pro-prio nella redazione della «Repubblica». Cercavano una vittima simbolica e i loro nemici giurati erano iriformisti. Qualche tempo dopo, un magistrato cheaveva istruito diversi processi ai terroristi, Santiapichi, mi disse che in un covo era stata trovata una cartella con i miei articoli. Ci fu un ballottaggio tra i due nomi che andò come andò forse perché Tarantelli era più rappresentativo, era il capo del servizio economico della Cisl. Mi spiegarono che Tarantelli era anche più metodico nei suoi spostamenti e divenne tragicamente un bersaglio più facile. Erano tempi duri: uno dei miei articoli trovato nei covi si intitolava “Licenziare per salvare l’occupazione” dove sostenevo la convenienza di ridurre, pur senza annullarle, le garanzie del posto di lavoro. Ricordo come se fosse ieri la telefonata che Scalfari mi feceprima di pubblicarlo: «Ci tieni alla fisicità?», mi chiese. «In maniera normale, né più né meno degli altri», risposi. Uscì in prima pagina, con quel titolo piuttosto forte, per le BR era un pugno nello stomaco.

Petrini: Sono quelli gli anni dell’inflazione rovente chedal 1973 al 1977 viaggia all’incirca tra il 16 e il 20 per cento, viviamo lo shock petrolifero, il conflitto socialeè intenso. Gianni Agnelli e Luciano Lama, nel 1975,stipulano l’accordo sul punto unico di contingenza, sale la copertura della scala mobile con effetti che saranno assai negativi.
PSL Sì, fu un altro grave errore. Ricordo che allora Luciano Lama spesso chiamava me, Antonio Pedone, Luigi Spaventa e Franco Momigliano per avere pareriindipendenti, informali, senza alcun vincolo di consulenza. Quando mi prospettò l’idea del punto unico, gli dissi che era una sciocchezza, e lui mi rispose:«Ci vai tu a dirlo agli operai». In quei giorni ricordo che ci invitò a pranzo al Pescatore, un ristorante romano; ebbene, dovevamo ancora sederci, io feci una sfuriata e stavo per andarmene: «Che ci sono venuto a fare qui se non vengo ascoltato dalla Cgil?». Mi disarmò, con una vena di ruvida umanità: «Quelli come te mi piacciono», disse Lama che qualche anno dopo riconobbe che avevo ragione. La verità è che la Confindustria spingeva e l’allora presidente Agnelli era consigliato da Franco Mattei, direttore generale dell’associazione, decisamente reazionario. Gli diceva che l’intesa non avrebbe danneggiato la Fiat che aveva operai nelle fasce medie e medio-alte, mentre la copertura che veniva portataoltre il 100 per cento della contingenza era nelle fasce basse. La Cisl premeva anche di più, mentre la Cgil, grazie anche alle mie insistenze, era incerta. Lama mi raccontò l’epilogo di quella storia: furono convocati a Torino da Agnelli, il quale comunicò il proprio assenso alla scala mobile «pesante». «Che dovevo fare, essere più realista del re?», si giustificò. Mattei e Agnelli agirono in quel modo per favorire la Cisl e indebolire il sindacato comunista: siamo il paese di Machiavelli.
Petrini: La sua restò una voce nel deserto.
PSL: Sì, ma furono molti in seguito a riconoscere i propri errori. Agnelli che avevo duramente attaccato, los tesso De Benedetti che mi telefonò da Ivrea: «Lei ha ragione e io torto», mi disse lui che si era inizialmente schierato per l’accordo. Del resto le tentai tutte: vidi anche Berlinguer a Stintino, ho ancora l’appunto che gli feci, battuto con una Olivetti Lettera 22, per dimostrargli che si trattava di una misura che avrebbe danneggiato i lavoratori, perché alla fine avrebbe favorito l’inflazione e i salari reali sarebbero restati con il fiatone. Mi sembrò di averlo convinto, ma lui si limitò a dire che ne avrebbe dovuto parlare con Lama.

Petrini: Non furono in molti, a quei tempi, a puntare l’indice sulla corruzione, sul sistema dei partiti che stava degenerando, sulla mafia e la politica. Fecero clamorele sue dimissioni nel 1974 dal Comitato tecnico-scientifico per la Programmazione economica: dichiarò che«non voleva lavorare al fianco di un uomo per il quale erano state inviate al Parlamento ben quattro richiestedi autorizzazione a procedere da giudici diversi».
PSL: Era Salvatore Lima, la sua nomina a sottosegretario era stata voluta da Andreotti, allora ministro del Bilancio, e fu avallata da Aldo Moro perché Lima, diceva, era «troppo forte e pericoloso». Anche Giorgio Fuà si dimise dal Comitato. Tutti esaltano Giulio Andreotti come personaggio straordinariamente astuto. Forse è vero, ma nella scelta dei soci non sembra un’aquila: Lima è solo un caso fra tanti.

Petrini Allora l’area politica alla quale si trovò più vicinofu quella socialista, anche se in seguito, con una formula azzeccata, Enzo Biagi la inserirà nella schiera de-gli «antipatizzanti» socialisti più che dei simpatizzanti. In un’intervista al «Corriere della Sera» del 1976 lei diede sul Psi il seguente giudizio: «Quando la tensione ideale si allenta o si spegne, la preoccupazione per il particolare, nelle diverse forme di affarismo barattiero, di clientelismo e di degenerazione correntizia, prevale sull’interesse di lungo periodo di un partito».
PSL In quell’anno denunciai, durante un convegno della rivista «Mondo Operaio», il sistema di potere creato in Calabria e il clientelismo di Giacomo Mancini. Alcuni leader del Psi mi rimproverarono di non fare gioco di squadra, perché i socialisti contavano poco nell’Università di Cosenza che io, Andreatta ealtri eravamo stati chiamati a organizzare; io, in quanto sostenuto dai socialisti, ma non per mia sollecitazione, mi sarei reso colpevole di tradimento. Come se all’Università dovesse contare l’affiliazione politica e non il valore scientifico, dissi allora. Dovetti difendermi in via giudiziaria perché un avvocato cosentino, Luigi Gullo, ex senatore del Pci, ci fece causa penalea ccusando me, Nino Andreatta e Adriano Vanzetti di non avergli attribuito un incarico di insegnamento che lui riteneva di meritare. Ci vollero dodici lunghi anni perché la magistratura ci desse pienamente ragione.

Petrini: Dalla sua biografia emerge che lei ha avuto rapporti difficili con tutti i partiti, dai democristiani ai socialisti. Se l’è presa con fascisti e comunisti, sindacati e industriali, sessantottini e baroni. Un aspetto del suo carattere è la grande libertà di giudizio. Non si può negare tuttavia che ha sempre potuto esprimere le sue opinioni con qualche risultato positivo.
PSL: In realtà ho avuto cattivi rapporti con alcuni politici appartenenti a certi partiti e rapporti molto buoi con altri politici appartenenti agli stessi partiti: ho sempre discriminato le persone secondo l’onestà civile e non secondo l’ideologia. Ho avuto amicizia con Andreatta, per esempio, che era un democristiano. Con Antonio Segni di cui ho già parlato. Quanto ai socialisti sono stato e sono amico di Antonio Giolitti, consideravo con simpatia e stima Riccardo Lombardi. Ma quando Craxi, successivamente negli anni Ottanta, mi invitò a partecipare all’assemblea di Rimini, quella dei nani e delle ballerine, rifiutai. Quando mi dicevano: che ne pensi di Craxi? rispondevo declinando: crango, crangis, craxi, cratum, crangere. Un verbo latino che non esiste ma significava: non lo conosco, non lo capisco, non mi piace

Petrini: Un aspetto teorico, a mio avviso, sembra ancora più importante e risale al suo «Oligopolio e progresso tecnico» del 1956. Vi si scorgono le basi di un principio che, oggi, sembra ampiamente accettato: sindacati e industriali possono raggiungere accordi rilevanti per la distribuzione del reddito e per i prezzi. Non è così?
PSL In parte è così, anche se la semplificazione che lei fa è estrema. Inoltre non so se quel libro abbia influito, e in quale misura, sull’atteggiamento cui lei accenna e che troviamo spesso in Europa. In quel saggio, tradotto in America grazie a un anticonformista come Kenneth Galbraith, incuriosito da un lungo articolo di Franco Modigliani, sostenevo che oggi, in situazioni di oligopolio generalizzate e non più di piena concorrenza, il progresso tecnico e l’aumento della produttività non sono più in grado di far scenderei prezzi come nell’Ottocento; inoltre, il maggior potere di mercato che i lavoratori hanno raggiunto nonsolo attraverso i sindacati ma anche attraverso sempre più complesse specializzazioni, impedisce che isalari diminuiscano, eccetto che nelle fasce dei lavo-ratori non qualificati. Di conseguenza la variazionedei costi del lavoro ha forti ripercussioni sulla distribuzione del reddito tra salari e profitti: quando i costi del lavoro crescono, i prezzi di regola non cresco-no in proporzione, la quota dei salari sul reddito industriale tende a crescere e la quota dei profitti a diminuire. Accade l’opposto quando i costi del lavoro diminuiscono.

Petrini: L’America ormai si stava affacciando prepotente-mente sulla scena italiana. Arrivavano film come «Casablanca» e «Via col Vento», «Il Mondo» pubblicava Steinbeck ed Hemingway. Arrivavano nuovi ritmi musicali, a partire dal jazz. Subì anche lei questo fascino?
PSL La passione per il jazz la debbo a un mio compagno di liceo. Si chiamava Luciano, era un ragazzo dall’aria triste, così bello che lo avevamo soprannominato Rodolfo Valentino, e che morì in guerra in modo assai tragico. Erano gli anni tra il 1936 e il 1937, il jazz era proibito, ma lui riusciva a procurarsi i classici come Saint Louis Blueso i dischi appena usciti di Ginger Rogers e Fred Astaire, con i quali mettevamo in piedi le festicciole tra studenti. Ma chi poi mi spiegò i segreti di quella musica fu il mio amico, l’economista Hyman Minsky, che conobbi a Harvard nell’anticamera di Schumpeter, dove feci conoscenza anche dell’altro mio grande amico Richard Goodwin. Diversi anni dopo Minsky mi invitò a Saint Louis dove insegnava. Fu lui a spiegarmi che jazz, nel linguaggio dei neri, vuol indicare l’orgasmo. Lì capii come il jazz anticipava Freud: era la musica che si suonava nelle case di tolleranza per coprire i gemiti, ma era anche la musica che si suonava ai funerali. Eros e Thànatos. Mi è rimasto un grande amore per quella musica dove si mescolano passione e tristezza; come in quel pezzo di Duke Ellington, Mood Indigo, in cui «mood» vuol dire «stato d’animo» e «indigo», come mi fece notare una volta Pasquale Saraceno, un altro grande appassionato di jazz, significa «indaco»,cioè quel colore che è un incrocio tra il violetto e il blu. Colori che rappresentano bene la passione e la tristezza.
Petrini: È così che sente l’Italia di oggi: «Mood Indigo»?
PSL Forse è proprio così, passione e tristezza perquesto paese.

Petrini: Il partito comunista italiano però è un caso a sé.
PSL: Certo, fra tutti è stato il più anomalo. Oggi il Partito comunista più importante, fra quelli sopravvissuti, è il partito cinese. Ricordo che nel 1955 fui invitato con altri intellettuali a visitare la Cina; allora per gli occidentali inviti di questo genere erano assai rari. Eravamo cinque, tre dei quali non comunisti, i cinesi infatti preferivano invitare i miscredenti; tra questi c’ero io e c’era l’editore Vito Laterza; da allora si è stabilita una amicizia che si è protratta fino alla sua scomparsa, avvenuta a giugno. Da anni Vito mi proponeva di fare un libro-intervista; alla fine mi ha convinto; per questo, d’accordo con il mio intervistatore, il libro è dedicato a lui. La nostra visita in Cina durò un mese; viaggiammo molto e per due giorni navigammo sul Fiume Azzuro. Quell’immensa società – un quinto del genere umano – cominciava a sollevarsi da una situazione di estrema arretratezza, nonostante le antichissime tradizioni di civiltà. Lo sforzo gigantesco che i cinesi stavano compiendo ci commosse; aveva già commosso Ferruccio Parri, che era stato invitato l’anno precedente. Da quanto potemmo comprendere, sull’ideologia del Partito comunista cinese Marx aveva influito, soprattutto attraverso l’Unione Sovietica, che fino ad allora era stata alleata. La rottura, infatti, avvenne subito dopo. Ma, io credo, che più di Marx abbiano influito le tradizioni culturali cinesi, anche quelle molto antiche, cosicché l’abbandono della pianificazione centralizzata e l’adozione di peculiari forme di mercato e di non meno peculiari forme di affitti pubblici di fondi rustici sono potuti avvenire in una struttura politica pur sempre dominata da un partito unico. Gli affitti, infatti, debbono essere a lunga scadenza o a scadenza indeterminata, in modo da dare la sicurezza a chi coltiva la terra di godere dei miglioramenti via via introdotti. Si tratta di una formula simile a quella suggerita per i contratti agrari da Adam Smith. In Cina non c’era e non c’è libertà politica, questo è certo. Io credo però che in tempi lunghi, forse non lunghissimi, i cinesi conquisteranno anche la libertà politica.

Petrini: A quel punto, sulla scena politica italiana è comparso il fenomeno Berlusconi.
PSL Come si sa, io considero l’avvento di Berlusconi una sciagura nazionale. Proprio quando l’Italia cessava di essere il terreno di scontro, combattuto senza esclusione di colpi fra comunisti e anticomunisti, col sostegno anche finanziario delle due superpotenze, e poteva avviarsi sul cammino della civiltà, si è invece affermata Forza Italia.

Petrini Lei ritiene dunque che siamo ancora un paese anormale?
PSL Purtroppo sì. Tre reti televisive nazionali ufficiali, più due ufficiose, più due giornali, più due caseeditrici del peso della Mondadori e dell’Einaudi e vasti organismi pubblicitari, danno a chi li controlla, cioè a Berlusconi, un potere enorme di condizionamento dell’opinione pubblica. Lo stesso Berlusconi riconobbe questo fatto e nominò una commissione ditre saggi per trovare un rimedio, ossia il blind trust. Ma un rimedio di quel genere che consiste nell’affidare il proprio patrimonio a fiduciari che lo gestiscono autonomamente e senza informare il titolare, chepuò essere ipotizzato nel caso di un patrimonio composto da titoli o da beni interscambiabili, non è neppure concepibile nel caso di reti televisive la cui attività è tutt’altro che «cieca». L’«Economist», che prima delle elezioni del maggio 2001 dedicò un lungo articolo a Berlusconi, scrisse che «in qualunque paese normale gli elettori – e forse la legge – non avrebbero concesso a Berlusconi l’opportunità di presenarsi alle elezioni senza prima obbligarlo a spogliarsidi molti suoi beni e delle sue vaste attività imprenditoriali». Con l’ascesa al potere di Berlusconi e dei suoi soci la situazione diventa ancora più grave, giacché l’uomo controlla anche le reti televisive pubbliche e in tal modo diventa il monopolista dell’intero sistema televisivo. Uno storico come Denis Mack Smith, nell’ultimo capitolo della sua Storia d’Italia dal 1861 al 1997, afferma che Berlusconi dopo il 1994 aveva «urgente bisogno di riconquistare il potere politico per conservare il monopolio della televisione commerciale» e per «controllare la magistratura». Fu brutalmente esplicito col giornalista Curzio Maltese il principale collaboratore dell’azienda di Berlusconi, Fedele Confalonieri, quando gli disse: «Io ero contrario che facesse politica senza vendere le sue aziende, come si fa in democrazia. Ma se non l’avesse fatto oggi saremmo sotto un ponte con l’accusa di mafia. Col cavolo che portavamo a casa il proscioglimento per il lodo Mondadori». L’intervista è stata pubblicata da «la Repubblica» il 25 giugno del 2000 e non è stata mai smentita. Il giudizio di Mack Smith e l’affermazione di Confalonieri spiegano perché divento nervoso quando mi dicono che la Casa delle libertà rappresenta la destra o il centro-destra: il capo è un ricco personaggio che pensa principalmente alla sua azienda e ai suoi problemi giudiziari. Che diavolo c’entra la destra? Il riferimento di Confalonieri alla mafia è agghiaciante. Basta leggere il libro L’odore dei soldi di Elio Veltri e Marco Travaglio per valutare, ad esempio, il significato dei rapporti tenuti da Berlusconi con un personaggio che si rivelerà un mafioso acclarato come il celebre «fattore» di Arcore Vittorio Mangano.
E per finire qulche foto sparsa con amici e colleghi.







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