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LA RICERCA SULLE CLASSI SOCIALI DI UN “ONESTO RIFORMISTA”
di Enzo Bartocci

Il 7 dicembre 2005 si è spento Paolo Sylos Labini. Per chi lo ha conosciuto ed ha avuto con lui
rapporti di amicizia, di stima e di scambio culturale, questa dipartita viene avvertita come un vuoto
difficile da riempire. Le qualità  di grande economista si sommavano in lui al rigore morale, all’impegno politico e civile, alla straordinaria simpatia umana. Un fiume in piena di idee, di progetti, di impegni.
Lo avevo conosciuto nel 1959. Frequentavo allora il Corso Svimez sullo sviluppo economico al
quale Sylos partecipava come docente insieme a Pasquale Saraceno, Claudio Napoleoni, Manlio Rossi
Doria, Rosenstain Rodan. Ciò che maggiormente mi colpì delle sue lezioni, oltre la profondità  della sua
cultura economica, fu l’approccio interdisciplinare, l’importanza che in lui aveva il coniugare
l’economia con la storia e con i fenomeni sociali che della storia scandiscono gli eventi. L’impeto che
caratterizzava l’esposizione degli argomenti dava a volte l’impressione che quanto diceva fosse il
risultato di una riflessione a caldo, cioè di idee che prendevano forma nel calore stesso dell’esposizione
e che i suoi occhi vivacissimi catturavano ancor prima di enunciarle. Più volte, nel corso degli anni
successivi, ho avuto occasione di incontrarmi e discutere con lui su temi di comune interesse, due in
particolare, oltre la politica che costituiva la dimensione entro la quale ogni sua riflessione si collocava e trovava significato
Il primo di questi argomenti riguardava le classi sociali. Sylos Labini si era posto il problema
dell’articolazione delle classi e dei ceti sociali già  in una nota scritta nel 1952, Produttori di ricchezza e
produttori di servizi: classe operaia e classe media, in cui si metteva in evidenza l’ampia, se pure
incompleta, sovrapposizione fra classe media e settore dei servizi privati e pubblici, cioè il terziario. In
quella nota sosteneva che la forte crescita di questo settore era la conseguenza dello sviluppo produttivo
generale e ne esaminava le implicazioni sociali e politiche. Di quelle pagine inedite ebbe a parlare, come
egli stesso ricorda nella introduzione di Le classi sociali negli anni ’80, (Laterza, 1986), con Francesco
Forte – allora condirettore, insie me a Gino Giugni, di “Economia & Lavoro” – il quale me ne suggerì la
pubblicazione. Cosa che avvenne nel volume 2° (1969), della rivista. In quella breve nota si osservava,
inizialmente, come fosse necessario operare «una distinzione teorica fondamentale, la cui essenza logica
e le cui implicazioni non sembra siano ancora ben chiare ?…? fra produzione di ricchezza (beni
materiali) e produzione di servizi personali». Distinzione «importante per illuminare la questione delle
classi sociali». Esse infatti sono riconducibili a tre gruppi: la “classe operaia”, costituita da produttori di
ricchezze; la “classe capitalista”, costituita da coloro che hanno diritti di proprietà, variamente
configurati, su determinate fabbriche e determinate terre, i quali hanno pertanto diritto ad una parte del
reddito di queste fabbriche e di queste terre; la “classe media” (la “sfinge”, per Marx), costituita
essenzialmente da produttori di servizi: servizi che non si incorporano immediatamente in ricchezze ma
sono resi ad altre persone.
Nella classe media Sylos Labini comprendeva anche i pensionati, i detentori di titoli di debito
pubblico e, infine, gruppi particolari, cioè produttori di ricchezze per conto proprio quali i piccoli
proprietari terrieri, i coltivatori diretti, gli artigiani, i commercianti, i lavoratori dell’industria e quelli dei
trasporti. La distinzione introdotta da Sylos costituisce una confutazione, condotta sul piano empirico,
della teoria delle classi sociali di Marx e di quanti, dopo di lui, hanno adottato il suo apparato
concettuale utilizzando la nozione di “classe”, non come una categoria sociologico-descrittiva, bensì
come una categoria in grado di analizzare qualsiasi forma di organizzazione societaria e i meccanismi
che presiedono alle sue trasformazioni. Inoltre, a suo avviso, soltanto un’analisi della struttura sociale
italiana condotta sul terreno storico-empirico avrebbe potuto consentire un’utile verifica della realtà 
delle classi sociali.
Sylos Labini osservava poi come nei paesi sviluppati, specificatamente negli Stati Uniti e in
Inghilterra, i produttori di ricchezza (classe operaia) sono divenuti minoranza e sono destinati a
rappresentare una componente sempre più esigua del mondo del lavoro, nel mentre aumentano, in teoria,
le «possibilità  di una presa di possesso monopolistica del potere con metodi democratici da parte delle
classi medie». In pratica, però, dice Sylos, nelle esperienze europee del XX secolo, le classi medie si
alleano o con la classe capitalistica o con la classe operaia. Nel primo caso va al potere un partito
conservatore o, monopolisticamente, un partito reazionario fascista. Nel secondo caso va al potere un
partito laburista, qualora ne esistano le condizioni.
In un paese che, come l’Italia del secondo dopoguerra, non ha ancora conosciuto il processo di
sviluppo, osservava Sylos Labini, queste condizioni non si sono realizzate. Numerosi i motivi che ne
sono all’origine. Di questi i più importanti sono:
a) il ritardato processo di sviluppo. Esso ha fatto sì che nel Mezzogiorno, come in tutti i paesi
arretrati, la stragrande maggioranza della popolazione sia composta da poverissimi “produttori di
ricchezze”. Malgrado ciò la politica “cortina di fumo + oppio” – cioè promesse e comportamenti
demagogici e pressioni da parte del clero – hanno consentito al Partito monarchico e alla Democrazia
cristiana, partiti non riformisti cui fanno riferimento importanti settori del ceto medio, di drenare una
notevole percentuale di voti in questi strati sociali;
b) l’aumento della proporzione, rispetto alla popolazione attiva, dei lavoratori dell’industria
nell’l’Italia settentrionale, area relativamente sviluppata e in via di ulteriore sviluppo, con caratteristiche
per certi versi opposte a quelle del Mezzogiorno. Senonché la maggioranza di questi lavoratori si
identifica con la politica di un partito non riformista come il Partito comunista;
c) l’indebolimento dei partiti socialisti-riformisti tradizionali che non sono in grado di assumere
un’iniziativa riformista credibile in grado di attrarre i ceti medi. Di questi il PCI ha raccolto, in parte,
l’eredità, infatti «del problema dei ceti medi […] mostra di essere sempre più consapevole, anche se in
modo alquanto oscuro e approssimativo». Di conseguenza, quanto oggi esso sta facendo «non è
necessariamente, forse non è affatto, un’opera di preparazione alla rivoluzione, ma è piuttosto un’opera
di organizzazione sindacale e di educazione politica».
In altri termini – fa capire Sylos Labini, anche se non esplicita questa analisi che svilupperà 
successivamente – il Partito comunista è indotto a ignorare le tendenze in atto essendo interessato a
ideologizzare il discorso sulle classi per riportare i ceti medi all’interno di uno schieramento politicosindacale
unitario. Questa operazione politica è stata condotta dal PCI applicando la teoria della
“proletarizzazione dei ceti medi”. Predicando una perdita di status in conseguenza della loro
trasformazione in lavoratori dipendenti, il Partito comunista ha cercato di dimostrare che gli interessi
generali di questa categoria sono coincidenti con quelli della classe operaia, giustificando in tal modo la
concezione dicotomica delle classi sociali teorizzata da Marx e la lotta di classe che di tale dicotomia
costituisce un corollario. Un’operazione, questa, destinata a manifestare la sua infondatezza.
Estremamente interessante appare, dunque, questa breve nota del 1952 in cui, sulla base di una
analisi di dati empirici sociologicamente rilevanti, l’economista confuta la teoria delle classi sociali di
Marx. Interessante perché Sylos Labini anticipa, con il suo scritto, l’evoluzione degli eventi italiani in
quanto la distinzione da lui suggerita mette in discussione i cardini stessi delle politiche dei partiti
italiani di sinistra. Proporre una interpretazione, scientificamente fondata, che contrappone a quello di
Marx uno schema a tre classi o – come dirà  successivamente – due classi e una quasi-classe (il ceto
medio), dove solo quest’ultima può determinare, di volta in volta, attraverso le sue scelte, la
maggioranza di governo e la sua agenda politica, significava cambiare radicalmente l’interpretazione
degli eventi passati e ridisegnare le possibili strade per il futuro. Ed era questo un risultato politico che a
Sylos stava particolarmente a cuore perché poteva aprire la strada a quella strategia delle riforme che
costituì la stella polare che orientò i suoi personali orientamenti politici.
Questi orientamenti politici vengono ulteriormente esplicitati negli anni ’70 quando Sylos Labini
torna allo studio e all’analisi delle classi sociali, nel quadro dei mutamenti della struttura delle società 
moderne, in una conferenza tenuta nel marzo del 1972 per invito dell’Associazione culturale italiana di
Torino. Il testo fu pubblicato, in parte, nel fascicolo del 31 marzo 1972 dell'”Astrolabio” e,
integralmente, nel fascicolo XXXI dell’Associazione culturale italiana (giugno 1972). Una versione
rielaborata e ampliata venne pubblicata, con il titolo Sviluppo economico e classi sociali in Italia, nel
vol. XXI, 1972, n. 4, di “Quaderni di Sociologia”. Nell’introduzione l’autore spiega le ragioni del suo
interesse all’argomento affermando che «l’economista, non diversamente dal sociologo, studia la società 
della quale fa parte». Aggiunge poi, nel chiarire i motivi che lo ha nno indotto ad affrontare gli
argomenti svolti nel saggio, che una delle ragioni consiste nel fatto che «chi scrive si considera un
“onesto riformista”, onesto in quanto non solo crede ma opera, con le sue modestissime forze, per le
riforme», specialmente per quelle – dice citando la Prefazione di Marx alla prima edizione del 1° libro
de Il Capitale – che possano contribuire a «sgombrare il terreno da tutti quegli impedimenti legalmente
controllabili che impacciano lo sviluppo della classe operaia».
Emerge in questa affermazione la concezione che della politica ha Sylos Labini. Una concezione,
aggiunge ironicamente, non dettata da «una straordinaria nobiltà  d’animo» o da «una generosità  senza
pari» bensì semplicemente da «ragioni di meditato egoismo» per la convinzione che il processo di
trasformazione sociale dell’Italia «si muoverà  in forme più sociali o più umane – è ancora una citazione
tratta dalla Prefazione di Marx – secondo il grado di sviluppo della classe operaia» e più in generale –
aggiunge subito dopo – «secondo il grado di sviluppo delle classi inferiori o subalterne».
Questa integrazione del pensiero di Marx – classi inferiori o subalterne e non solo classe operaia –
non è casuale. Da una parte essa illustra il riformismo post-marxista dell’autore, dall’altro anticipa
alcune conclusioni del saggio e degli scritti successivi sulle classi sociali riguardanti l’importanza, sul
piano quantitativo e politico, dei ceti medi. Per Sylos Labini, infatti, l’elemento più rilevante
nell’evoluzione delle classi nel nostro paese – lo stesso fenomeno era avvenuto negli Stati Uniti e in
Gran Bretagna, come aveva già  sottolineato in scritti precedenti – era costituito dalla grande espansione
della piccola borghesia in generale e, in particolare, di quella impiegatizia. Si trattava, cioè, di ceti medi
che non possono essere considerati propriamente una classe ma, al massimo, una quasi-classe che
possiede alcune solidarietà  di fondo ma è suddivisa in tanti gruppi aventi interessi economici
differenziati e spesso contrastanti. Si tratta quindi di uno strato sociale frantumato in tanti gruppi:
piccola borghesia impiegatizia, formata da impiegati pubblici e privati percettori di stipendi; piccola
borghesia relativamente autonoma composta da percettori di redditi misti come ad esempio contadini
proprietari (coltivatori diretti), artigiani, piccoli professionisti, commercianti e, infine, categorie
particolari formate da religiosi, militari, ecc, che sono percettori di stipendi.
Per la sua eterogeneità  economica e sociale la piccola borghesia manifesta caratteri di instabilità  e
polivalenza politica. In determinate situazioni di crisi economica e istituzionale, come avvenne dopo la
prima guerra mondiale – dice l’autore motivando quanto già  accennato nella nota del ’52 – ampi strati di
questa quasi-classe possono essere indotti ad allearsi con i gruppi dominanti della grande borghesia, con
il rischio di precipitare in forme di autoritarismo politico quale fu il fascismo. Viceversa quando, come
nel 1974, anno in cui scrive il suo saggio, queste situazioni di grave crisi istituzionale non esistono e la
grande borghesia non è tentata da avventure fasciste, un’alleanza di strati della piccola borghesia con
coloro che gestiscono gli interessi della classe operaia – afferma Sylos Labini sviluppando l’analisi fatta
nella nota del 1952 – può dar luogo a politiche di tipo laburista e, comunque, può consentire un forte
ancoraggio democratico alla piccola borghesia e, al tempo stesso, l’attuazione di riforme anche radicali.
Di qui la propensione per una organica alleanza fra classe operaia e ampi strati della piccola borghesia e
in particolare con due gruppi: gli intellettuali da un lato e, dall’altro, gli scienziati, i tecnici e gli
specialisti di formazione più recente, cioè gli intellettuali di tipo nuovo – dice Sylos citando Gramsci –
anche se, tra i due, su questo specifico argomento, esistono orientamenti profondamente diversi.
Gramsci, pensatore rivoluzionario, distingue, innanzitutto, tra due tipi di intellettuali. Il primo è
costituito da intellettuali tradizionali i quali, pur non essendo legati politicamente alla classe operaia,
non sono compromessi con la classe dominante. Con essi occorre dialogare e fare i conti. Il secondo è
costituito dagli “intellettuali organici” che ogni nuo va classe crea nel suo sviluppo progressivo. A questi
ultimi spetta il compito di rinnovare il sistema di valori esistenti nella società  capitalistica e diffondere la nuova cultura socializzandola all’interno della società  civile per assicurare ad essa consenso da parte dei cittadini. Si verrà  a realizzare, in tal modo, quell’egemonia – intesa come capacità  di direzione culturale – che costituirà  la base di legittimazione del potere politico del partito unico della classe operaia, il
“moderno principe”. In questa costruzione teorica, come afferma Bobbio (AA.VV, Egemonia e democrazia, “Quaderni di Modoperaio”, 1977, pp. 60-61), nel pensiero di Gramsci il principio dell’egemonia è incompatibile con quello del pluralismo. Sylos Labini, invece aderisce ad una
concezione laica e pluralista della politica. Per lui gli intellettuali, gli scienziati e i tecnici sono l’ala
culturalmente e politicamente più consapevole e affidabile della piccola borghesia, ponte necessario per
realizzare un’alleanza che egli ritiene condizione indispensabile per una politica di radicale
trasformazione e rinnovamento dell’ordinamento sociale.
Lo sviluppo del discorso sulle classi sociali prosegue con il Saggio sulle classi sociali pubblicato da
Laterza nel 1974. Nella Prefazione e nell’Introduzione l’autore riprende spunti e considerazioni svolte
nel saggio precedente. Si sofferma innanzitutto a sottolineare che lo studioso di discipline sociali nella
sua attività  intellettuale e politica «è necessariamente condizionato dall’educazione che ha ricevuto,
dall’ambiente dal quale proviene, dalle sue preferenze circa i movimenti della società  in cui vive, in una
parola dalla sua ideologia». Per questa ragione il ricercatore sociale deve essere intellettualmente onesto.
Ne consegue – egli scrive – di sentirsi in dovere spiegare ai lettori alcuni frammenti della sua ideologia,
nella misura in cui ne è consapevole. Tra i punti che espone c’è la riaffermazione di quanto detto nel
saggio del 1972, e cioè di considerarsi “un onesto riformista” e, per questa ragione, ritiene opportuno
mettere a fuoco, in particolare, alcuni aspetti che attengono alla obbiettività  necessariamente relativa del
ricercatore, anche di quello intellettua lmente in buona fede. Sottolinea poi ulteriormente le implicazioni
politiche dei risultati di una analisi quale quella che sta conducendo. Un’analisi che ha come effetto il
disvelamento del carattere ideologico delle politiche della sinistra nella misura in cui essa non pone
attenzione – nel predisporre la sua azione – «ai dati quantitativi della struttura sociale italiana». Dati che
non vanno manipolati ma devono essere analizzati nella loro apparente contraddittorietà. E’ necessario
infatti «definire criticamente e tentare di valutare, da un lato, il fenomeno della proletarizzazione di certi
strati di ceti medi e, dall’altro, il fenomeno dell’imborghesimento di certi strati operai».
Sylos Labini ritiene che sia da respingere la tesi per cui il processo di proletarizzazione
coinciderebbe con il processo di espansione dei lavoratori dipendenti come affermano quanti sono
interessati a dimostrare che questo processo investirebbe ormai la massima parte dei lavoratori, tesi a
suo avviso, «falsa sul piano dell’analisi e pericolosa da un punto di vista politico di sinistra». Con il
rischio di porre in termini errati «il problema politico contemporaneo di paesi come il nostro, che è il
problema dei rapporti tra classe operaia e ceti medi». Per sciogliere questo nodo occorre riconoscere che
«la classe operaia, pur essendo sempre una classe subalterna, lo è in misura decrescente e, nel suo
complesso, si trova economicamente e politicamente in ascesa». Pertanto nel saggio del 1974 si cerca di
approfondire ulteriormente, attraverso una serrata analisi critica, la validità  della tesi «attribuita a Marx e ai suoi seguaci, ma in realtà  assai più diffusa», del «bipolarismo marxista, sia pure tendenziale; una tesi
che si insinuava non solo nelle costruzione di alcuni sociologi ben lontani da Marx, ma nell’analisi che
diversi economisti andavano svolgendo» sulla base della «dicotomia profitti-salari, sostanzialmente
identica alla dicotomia capitalisti-proletari».
Osservando l’evoluzione economica e sociale del nostro paese Sylos constata come in Italia, se da
un lato si registra una fondamentale stabilità  delle tre grandi classi sociali su base nazionale, dall’altro, a
livello territoriale, nelle tre grandi circoscrizioni (Nord, Centro e Sud), non soltanto le oscillazioni
risultano più accentuate ma le variazioni più importanti hanno luogo all’interno delle classi medie e
della classe operaia. In altri termini, in queste tre aree si assiste a variazioni contrastanti delle quote delle sottoclassi. Nell’ambito delle classi medie diminuiscono i coltivatori diretti e, almeno relativamente, gli altri lavoratori autonomi (eccetto i commercianti), nel mentre aumentano gli impiegati sia privati che pubblici. Nella classe operaia diminuiscono i salariati agricoli ed aumentano i salariati nelle altre
attività, specialmente nell’industria. Tenendo conto dei diversi gradi di crescita risulta pertanto
confermato – a suo avviso – che col procedere dello sviluppo diminuisce la piccola borghesia
relativamente autonoma nel mentre si registra un fortissimo aumento della piccola borghesia
impiegatizia e commerciale. I dati presi in considerazione fanno ritenere al nostro autore che Marx, nella sua analisi delle classi e delle sotto-classi, sia consapevole del ruolo della piccola borghesia. Ma la
piccola borghesia di Marx, egli osserva, è essenzialmente quella di tipo tradizionale, destinata nel tempo
a subire una «inevitabile decadenza », così come «le altre frazioni della grande borghesia avrebbero
progressivamente perduto d’importanza, lasciando libero il campo ai due grandi protagonistiantagonisti:
la borghesia industriale e il proletariato industriale». Questa previsione, però, non ha trovato conferma nella successiva evoluzione delle classi sociali. Nel nostro paese, infatti, come anche negli altri paesi che si sono andati sviluppando secondo lo schema capitalistico, il fatto nuovo – afferma l’autore – è rappresentato appunto dall’enorme espansione della piccola borghesia impiegatizia e, in via subordinata, di quella commerciale. Senza entrare nel dibattito aperto, specialmente in campo sociologico, tra studiosi di formazione marxista sostenitori di un processo di proletarizzazione dei ceti medi, e studiosi critici degli approdi del marxismo in materia, Sylos Labini dichiara di «ritenere erronee ambedue le tesi se ad esse si vuol attribuire validità  generale anche perché la situazione è piena di contraddizioni» e, pertanto, fa capire, può essere aperta agli esiti più disparati in particolare a causa della instabilità  e della polivalenza politica della piccola borghesia. Lo studioso, dopo aver trovato conferma alle sue ipotesi nel confronto tra la struttura sociale italiana e quella di altri paesi (Spagna, Giappone, Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti, Argentina, Cile) in condizioni simili ovvero in condizioni del tutto
diverse, torna sull’argomento che più gli sta a cuore. Esso è costituito dalla politica delle riforme, dal
momento che la ricerca economica e sociale, scissa dall’impegno politico e civile, si svilisce a tecnica e
subisce una inevitabile perdita di senso. Sylos Labini riprende pertanto il discorso sulle alleanze sociali
laddove lo aveva lasciato nel saggio precedente e lo approfondisce. Come aveva già  affermato sin dal
1952, soltanto un’organica alleanza di strati (ampi e in larga misura diversi) della piccola borghesia con
coloro che gestiscono gli interessi della classe operaia può dar luogo a politiche di tipo laburista fondate
su riforme radicali, anche se proprio da settori privilegiati della piccola borghesia, più che dalla grande
borghesia, possono venire ostacoli ad un processo di trasformazione. E’ necessario pertanto che vi sia, da
parte dei politici della sinistra, che di questa politica dovrebbero essere i naturali portatori, una grande
capacità  di sintesi e notevoli qualità  intellettuali e critiche. Era, questa, una condizione per la democrazia
per uscire dalla situazione di grave crisi in cui si trovava in quel momento, politicamente tormentato, in
cui il suo saggio viene pubblicato. Un momento che vede la fine delle illusioni e delle attese suscitate
dal centro-sinistra, per lo svuotamento completo della sua politica riformatrice senza che si veda uno
sbocco possibile a tale crisi, data la conventio ad excludendum che tagliava fuori un PCI, ancora
ideologicamente arroccato, dalla possibilità  stessa di proporre una credibile alternativa di governo.
La strategia berlingueriana del “compromesso storico” doveva verosimilmente apparire a Sylos
Labini un escamotage. Fondato sull’incontro esclusivo tra i due maggiori partiti di governo e
d’opposizione, il compromesso storico, in quanto privo di effettive potenzialità  di riforma, non soltanto
non consentiva di dare significato all’alleanza tra classe operaia e ceti medi, ma non era in grado di
proporre un’alternativa al governo moderato della D.C. Proprio in ragione della sua natura interclassista
e della sua condizione di partito a laicità  limitata, la Democrazia Cristiana non era stata in grado di
promuovere quelle riforme radicali di cui il paese aveva bisogno. L’alternativa, ad avviso di Sylos
Labini, sarebbe stata possibile soltanto se le forze politiche della sinistra – unitariamente – in quanto
rappresentanti dirette della classe operaia, avessero puntato alla collaborazione con gli strati socialmente
più robusti della piccola borghesia. Strati che, come sopra abbiamo avuto modo di ricordare, erano già 
stati individuati nei suoi precedenti lavori, sulla scorta della letteratura sociologica e delle analisi
effettuate dai politici più avvertiti, in due gruppi particolari: gli intellettuali da un lato, gli scienziati, i tecnici e gli specialisti di formazione più recente, dall’altro. In questi gruppi occorreva però distinguere, a suo avviso, una fascia, civilmente robusta, da una «di topi nel formaggio». Tra le due l’autore pone una fascia intermedia di individui personalmente onesti ma politicamente indifferenti, capaci di sacrificare alcuni loro interessi economici in nome di interessi civili più ampi. Anche su queste persone
occorreva puntare se si voleva realizzare una rinnovata alleanza. Era questa, per la sinistra – dice Sylos
Labini facendo riferimento al PCI – una difficile scommessa dal momento che, negli ultimi decenni, a
fronte di grandi mutamenti strutturali, essa in larga misura ha continuato a vivere di rendita sul
patrimonio intellettuale trasmesso dai grandi pensatori del passato, tradendo, in definitiva, il
fondamentale messaggio di Marx, che invita a riesaminare criticamente, con mente aperta, la società  in
cui si vive.
Sylos Labini riprende ancora una volta la riflessione sulle classi sociali nel saggio Le classi sociali
negli anni ’80, pubblicato nel 1986 da Laterza. In questo lavoro innanzitutto rettifica la composizione
delle classi medie all’interno delle quali aveva inserito, nei precedenti lavori, i coltivatori diretti.
Accogliendo le critiche di Rosario Romeo su tale inclusione – data l’importanza sociale e politica della
questione contadina nella storia d’Italia e le caratteristiche peculiari dei contadini proprietari – considera separatamente i “coltivatori diretti” non solo in Italia ma anche negli altri paesi presi in esame. In
secondo luogo, a differenza del precedente saggio che si riferiva in via principale all’Italia e solo
subordinatamente ad altri paesi, la dimensione internazionale prevale su quella nazionale proponendo
confronti tra l’evoluzione delle strutture sociali in paesi diversi: paesi di tipo capitalistico, paesi del
socialismo reale, strutture arcaiche africane e strutture composite. Nell’Introduzione l’autore chiarisce
poi che le analisi proposte non sono sistematiche, ma soltanto temi di riflessione.
Particolare interesse in quest’ultimo saggio assumono gli ultimi due capitoli nei quali l’autore riflette
su due argomenti di grande importanza che ci danno ulteriormente la misura della sua passione civile e
il senso della “politicità ” della sua ricerca. I due argomenti, insiti nei titoli, sono rispettivamente: “La
crisi ideologica e politica del marxismo” e “Le prospettive delle società  occidentali”. Nel primo dei due
capitoli vengono riprese criticamente alcune riflessioni, esposte trent’anni prima e successivamente,
sull’analisi marxista della società  pervenendo alla conclusione che, da un punto di vista politico, la
dottrina marxista ha avuto conseguenze deleterie. Marx, infatti, aveva ritenuto di aver scoperto le “leggi di movimento” del capitalismo dalle quali aveva derivato delle previsioni catastrofiche sul capitalismo
industriale (miseria crescente del proletariato, caduta tendenziale del saggio di profitto con conseguente
crisi del sistema capitalistico, proletarizzazione della maggioranza della popolazione). Queste previsioni, risultate erronee, in quanto precludevano «ogni speranza di duraturo miglioramento per la grande maggioranza della popolazione, hanno indotto Marx ad assumere posizioni ostili al riformismo e alla stessa democrazia». Esse si sono pertanto saldate con la sua visione rivoluzionaria. Il riformismo, viceversa «ha trovato spazio proprio man mano che quelle previsioni non si verificavano».
Partendo da queste considerazioni Sylos Labini fa discendere il suo giudizio sul PCI che segna un
necessario aggio rnamento rispetto a quello espresso nel suo ultimo lavoro. Al Partito comunista, da un
lato, riconosce «meriti straordinari per il grande contributo alla democratizzazione di ampie masse
popolari, per la lotta contro la corruzione nella vita pubblica, per la lotta contro la criminalità  che
s’intreccia con la politica, per la lotta contro il terrorismo ». Dall’altro lato rileva che «quel che ancora
caratterizza il partito comunista è l’ambiguità ». Se è vero – egli osserva – che «si è esaurita la spinta
propulsiva della rivoluzione d’Ottobre» non basta lo strappo con l’Unione Sovietica ma occorre che il
PCI tragga da quella constatazione tutte le conseguenze rompendo i legami restanti col marxismoleninismo.
Il rischio sarebbe altrimenti quello di entrare in un processo involutivo che sottrarrebbe alla
vita politica italiana un prezioso patrimonio di valori.
Nell’ultimo capitolo: “Le prospettive della società  occidentale”, Sylos Labini si pone l’interrogativo
su cosa significhi essere un socialista riformista all’interno di una società  in cui la “classe operaia” – che ha subìto straordinarie trasformazioni negli ultimi decenni – dovrà  sopportare cambiamenti ulteriori e
decisivi per cui la sua specificità  sarà  difficilmente identificabile. La risposta a questa domanda
contribuisce a precisare ulteriormente la filosofia politica dell’autore quasi che la sua lunga ricerca sulle
classi sociali, iniziata come abbiamo visto nel 1952, abbia costituito al tempo stesso un itinerario per
trovare conferme alle sue convinzioni politiche liberal-socialiste cui era pervenuto sulla scorta
dell’insegnamento dei suoi antichi maestri, Gaetano Salvemini ed Ernesto Rossi. I liberali di antico
stampo – dice Sylos – volevano eliminare gli ostacoli sociali ed economici quando affermavano di
perseguire l’eguaglianza delle posizioni di partenza e l’eguaglianza delle opportunità, il che richiedeva
profonde trasformazioni. Su questa strada, però, si sono fermati troppo presto. I socialisti riformisti sono
andati oltre ma, per il conseguimento di quegli obiettivi, hanno ecceduto negli aiuti di Stato, giusti se
rientrano in limiti che non vanno superati. Soltanto coniugando istanze di libertà  e impegno sul piano
delle tutele sociali è possibile perseguire l’obiettivo di fondo costituito dalla «eguaglianza verso l’alto»
che può avvenire, sul piano intellettuale, socializzando la cultura e, sul piano materiale, socializzando il
benessere per eliminare le ampie sacche di miseria economica e civile che ancora permangono e di cui
l’economia di mercato non garantisce l’automatica scomparsa. L'”onesto riformista” ha probabilmente
presente, nel pronunciare queste parole, quel passo del capitolo di Shilrley, di Charlotte Bronte, “La
miseria genera odio”, posta da Beveridge sul frontespizio del suo saggio, L’impiego integrale del lavoro
in una società  libera. Eliminare queste sacche di miseria non è però un’impresa di poco momento.
Laddove ciò è avvenuto, nei Paesi scandinavi – il cui modello politico per molti versi costituisce per lo
studioso un modello di riferimento – è il risultato di «sforzi deliberati durati decenni».
Lo sviluppo della ricerca sulle classi sociali lungo l’arco di oltre trent’anni conferma l’importanza
che per Sylos Labini aveva l’indagine economica, sociologica e storica per offrire alle classi dirigenti gli strumenti per realizzare, nei paesi più evoluti, una società  in cui si affermasse, oltre che l’esigenza della
liberté e della égalité, quella della fraternité. Anche se, osservava realisticamente, le prospettive che la
ragione suggerisce non danno molto spazio all’ottimismo.
La riflessione critica sullo stato sociale in Italia – il secondo degli argomenti sui quali, in particolare,
ho avuto modo in passato di discutere con Sylos Labini – completa, io credo, il quadro delle sue
convinzioni politiche. Alla formazione di queste concorrono una ricerca economica continuamente
aggiornata, un’indagine sociale attenta al cambiamento, un’aspirazione alla giustizia sociale come
garanzia di crescita democratica e di benessere economico. Ma non soltanto. La compattezza del tessuto
social, che attraverso la giustizia sociale si realizza, può promuovere quel processo di “incorporazione
della protesta” che, come sostiene Eisenstad, favorisce sia la democratizzazione che lo sviluppo di un
paese. In questi scritti più compiutamente si esprime un ottimismo della volontà  che si contrappone
dialetticamente a quella visione catastrofica che in Marx «si salda con la sua visione rivoluzionaria – e
implica il ripudio del riformismo». Un ottimismo della volo ntà  che costituiva uno dei caratteri più
peculiari di Sylos, senza di che non sarebbe possibile comprendere la sua determinazione nel perseguire
coerentemente, giorno per giorno, gli ideali di una vita. Di stato sociale aveva scritto in una lunga
Introduzione che aveva premesso ad una riedizione del 1977 di Abolire la miseria, a dieci anni dalla
morte di Ernesto Rossi. Nel 1996 gli chiesi di aprire con una relazione i lavori di un convegno promosso
dall’Iridiss, un istituto di ricerca sociale del Cnr che allora dirigevo. Parlò a braccio, come era sua
abitudine, e le sue parole, il suo argomentare serrato, furono ascoltati con grande attenzione da parte dei
ricercatori e degli studiosi che gremivano la sala. Abbiamo ritenuto di riprodurre ne ll’attuale numero di
Economia & Lavoro il testo di quella relazione che era stata pubblicata, nello stesso anno, con gli Atti
del convegno. Ci è sembrato importante ritornare sulle idee allora espresse soffermandoci a riflettere, in
particolare, sull’ultimo paragrafo dedicato agli “aspetti critici del welfare state italiano”, per l’attualità 
che quelle idee ancora rivestono.
Vorrei richiamare l’ultimo passaggio della relazione tenuta al convegno. E’ un brano che richiama
quell’ottimismo della volontà  di cui prima si diceva. Facendo riferimento agli avvenimenti per molti
versi sconvolgenti di quel periodo che corre tra la fine della prima repubblica e la vittoria elettorale del
centro-destra, Sylos afferma che, pur senza farsi soverchie illusioni, non bisogna abbandonarsi al
pessimismo totale: «Dobbiamo invece fare affidamento oltre che su noi stessi, sulle tradizioni culturali e
di civiltà  del nostro paese. Non dobbiamo disperare sulle possibilità  di risalire la china». Fu questa la
speranza che lo sostenne anche nei giorni più neri della sua esistenza, questo il suo lascito.

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