Era uno che l’esito delle prossime elezioni lo avrebbe visto volentieri. Uno che ancora si sporcava
le mani, frequentava i partiti, i comizi, le conferenze. Lottava. Era nato a Roma il 30 ottobre del
1920. Due anni dopo la sua città sarebbe stata predata dal fascismo e lui lo avrebbe combattuto,
giovanissimo, tra le fila del partito d’Azione, di cui è stato l’economista di riferimento.
Economista competente e originale, teorico di un libero mercato calmierato e solidale, a Welfare
forte. Fiero, intransigente, testardo, allievo di Gaetano Salvemini, amico di Bobbio, esponente
dell’altra Italia che non c’è più.
L’ho conosciuto in una giornata di maggio di quest’anno. Frequentava il nostro comitato, in via
del Gesù, perché noi eravamo ospiti nella sede del Cantiere di Occhetto, movimento/partito in cui
Sylos Labini ha militato negli ultimi tempi con la generosità di sempre. Era una giornata calda, e
lui è entrato nel comitato quasi barcollando. Ci ha chiesto dove fossero i suoi compagni di partito.
Noi gli abbiamo spiegato che la loro riunione era stata spostata all’ex Hotel Bologna, per colpa
nostra, che avevamo convocato una conferenza stampa straordinaria al primo piano del comitato,
dove i militanti del Cantiere di Occhetto erano soliti e sono soliti svolgere le loro assemblee. Ha
inziato a imprecare in tutte le lingue. Contro Occhetto, contro tutte noi. Io non sapevo di avere
davanti Paolo Sylos Labini. Abbiamo provato a calmarlo, ma lui è uscito barcollando dal caldo.
“Vuole dell’acqua?”. “Non voglio niente!”. “Stia qui, si fermi!” “Non voglio niente e me ne
vado!”. Quando uscì dalla nostra sede, fu Marzia a dire perentoria, dopo una nostra battuta sullo
strambo anziano, qualcosa del tipo “Parlate con rispetto: quello è Paolo Sylos Labini”. Io adoro
Marzia quando fa così.
Ricordo che l’ho rincorso, gli ho gridato “Si fermi!”. Dietro di me Isabella. “Si fermi. Non se ne
vada. L’accompagniamo noi all’ex Hotel Bologna”. “Non voglio niente da voi”, rimbrottò. E io
gli risposi: “Sono io che voglio qualcosa da lei. Voglio fare una passeggiata con Paolo Sylos
Labini”. Sorrise, improvvisamente. Mi guardò dagli occhiali spessi e mi prese il braccio. Si
appoggiò. E iniziò a camminare, lentissimamente. Isabella ci accompagnò. E ci ascoltò parlare
di Salvemini e della mia Molfetta, del Partito d’Azione e di Bobbio. Il professore smise di essere
burbero. Rideva felice e ridevamo anche noi. Iniziò a raccontare. “Quella era un’Italia diversa.
Oggi non si respira”. E si asciugava la fronte con un fazzoletto bianco. “Le voglio fare un regalo”,
mi disse a un certo punto. “Le voglio far leggere una cosa di Salvemini che nessuno conosce”.
“Magari, professore!”, gli risposi. “La vengo a trovare al comitato”, mi disse. Ma non passò più.
Pensai che se ne fosse dimenticato. Qualche settimana dopo la fine della nostra avventura
referendaria, però, mi hanno detto di passare da via del Gesù, perché il professore aveva lasciato
una busta per me.
Ma non ci sono mai passata.
Oggi Sylos Labini ci ha lasciati.
Ci ha lasciato un’idea d’Italia e un’idea di economia. Un pezzo di socialismo liberale scomodo.
Un eretico: laicista e socialdemocratico. Uno di quei “paletti che guardavano indietro”, per dirla
con le parole di Bersani al Corriere.
Ciao professore.
Grazie per la passeggiata.
Noi, da queste parti, siamo sempre più soli.
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