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In ricordo di Paolo Sylos Labini, di Andrea Camilleri

Testo letto da Andrea Camilleri alla presentazione del libro
“Ahi serva Italia” di Paolo Sylos Labini, alla casa editrice
Laterza il 9 marzo 2006.
Scusatemi se leggo, ma temo che parlando a braccio l’età  e
l’emozione possano tradirmi. Una piccola premessa.
Quando l’editore Laterza mi ha mandato quest’ultimo libro
di Paolo, ho provato una commozione grandissima nel
leggere, nel capitoletto intitolato ringraziamenti, anche il mio
nome. In genere i ringraziamenti a fine volume sono riservati a
chi quel volume ha aiutato a nascere, ai collaboratori,
all’editor, alla stessa casa editrice. Qui no, qui Paolo
ringrazia le persone che con il loro esempio, scrive, gli hanno
dato speranza. Detto en passant, quei nomi mi parvero subito
una gran bella lista di proscrizione.
Dunque, gli altri compresi in quell’elenco e io gli abbiamo
dato speranza. Ma speranza in che cosa? L’elenco dei nomi,
57 in tutto, comprende economisti, magistrati, giuristi,
giornalisti, comici, filosofi, politici, scrittori. Certamente, come
comune denominatore, queste persone non hanno la stessa
idea politica: balza subito agli occhi che ci sono liberali e
comunisti, socialisti e senza partito. Allora? La chiave è data
da una frase di Paolo che precede la lista: si tratta, dice, di
persone “che vivono e non si lasciano vivere”. E allora è
chiaro che tutte queste persone sono contrassegnate, agli
occhi di Paolo, da una comune volontà  di resistenza: non
vogliono perdere l’autostima e non vogliono perdere la loro
dignità. Ma se le cose stanno veramente così, allora sono le
57 persone in elenco a dover ringraziare Paolo per essere
stato lui, in ogni momento della sua vita, l’esempio che ci ha
dato speranza.
Sono un narratore e il mio scarso sapere è circoscritto alla
letteratura. Ma da sempre mi sono interessato ai fatti sociali,
economici e politici perché ritengo che uno scrittore, sia pure
come semplice cittadino con diritto di voto, abbia il dovere di
conoscere il mondo nel quale sta vivendo prima ancora di
narrarlo. Ho conosciuto le idee di Paolo non dai suoi libri
d’economia che non ho mai letto non sentendomi nelle
condizioni di farlo, ma dai suoi articoli che erano sempre chiari
e comprensibili anche da parte di uno poco propenso alla
materia come me. Ricordo ancora che la doverosa lettura
giovanile di un compendio del “Capitale” mi procurò
violente emicranie. Paolo si proclamava un liberalsocialista, o
un socialista liberale se volete, e quindi era lontano dalle mie
idee, eppure lo leggevo perché sentivo attraverso le sue
parole qualcosa che profondamente mi convinceva del suo
pensiero e cioè “l’aspetto civile dell’economia, in
particolare quello dello sviluppo e dello sradicamento della
miseria”, come scrive Roberto Petrini, il curatore di questo
libro, nella prefazione. E forse quest’acutissima attenzione
verso la miseria c’era già  nel suo Dna, perché la sua nonna
materna era sorella di Giustino Fortunato.
Lo conobbi di persona nel 2000. Mi aveva invitato a cena a
casa sua Sergio Garavini e poco dopo arrivò Paolo. Per me,
fu una specie d’amore a prima vista. Aveva anagraficamente
cinque anni più di me, in effetti m’apparve più giovane di me
di una diecina d’anni. Era arguto, pronto, polemico,
costruttivamente ironico, spiritoso, brillante, ma bastava poco
per scoprire l’ossatura vera dell’uomo, fatta soprattutto di
un rigore morale intransigente e di una sincerità  spietata. Che
Gaetano Salvemini fosse stato il suo maestro e che Ernesto
Rossi fosse stato suo fraterno amico io quella sera non lo
sapevo, ma credetemi che intuii che apparteneva non per
elezione ma per diritto a quella razza. Inaspettatamente,
l’anno dopo mi telefonò sbrigativamente, dandomi del tu
(non ci eravamo più parlati né visti da quella sera) per dirmi di
firmare l’appello di Bobbio e Galante Garrone che mi
avrebbe inviato per fax. Lo firmai, grato per l’onore. Ci siamo
incontrati un’altra volta a cena da Paolo Flores d’Arcais, ho
presentato il suo libro sugli anticorpi (per dire il titolo esatto
dovrei anche pronunziare un nome che non mi sento in questo
momento di fare), ci siamo incontrati in qualche altra
occasione, ci siamo telefonati una diecina di volte, l’ultima
volta mi ha chiamato dalla clinica dove sarebbe deceduto
qualche giorno appresso. Tutto qui. Ora questi che lui chiama
“rapporti non fugaci” a me sembrano fugacissimi e
purtroppo irrecuperabili. Avrei voluto stare di più con lui,
imparare di più da lui. Voglio dire un’ultima cosa su l’uomo
Paolo. Del suo estro quasi fanciullesco e del divertimento
reciproco che provavamo quando stavamo insieme. Lui, da un
certo momento in poi, prese a chiamarmi “killer di m”… Era
capitato che un attuale ministro siciliano, in un suo comizio,
aveva affermato letteralmente che io ero un assassino della
casa delle libertà. Ma visto e considerato che nessuno della
casa delle libertà  era morto assassinato da me, Paolo era
arrivato alla conclusione che come killer non valessi niente.
Un’altra volta, alla presentazione del libro di John Dickie su
“Cosa nostra”, un giornalista del TG 1 ci mise davanti una
telecamera perché dicessimo qualcosa. Paolo si mise a
ridere. “Ma perché volete sprecare il vostro tempo?
Qualunque cosa diciamo, sarete costretti a censurarla!” Il
giornalista insistette. Allora Paolo mi prese sottobraccio, disse
“ecco l’unica cosa che possiamo fare per voi” e accennò
al motivo e a due passi del can-can. E così due ottantenni si
misero a ballare il can-can davanti a una telecamera.
Ho detto all’inizio che temevo l’emozione. L’emozione di
parlare di un libro che, via via che viene composto, si
trasforma, come dichiara l’autore, dall’iniziale invettiva in
un appello accorato. Aveva in mente di scrivere un pamphlet
che potesse racchiudersi nell’incipit dell’invettiva dantesca,
“Ahi serva Italia”, ma il seguito del verso rapidamente lo ha
sopraffatto facendolo virare verso la considerazione di
quell’ostello di dolore che è diventato il paese nostro.
Questo libro, nel suo andamento interno, rispecchia
esattamente il carattere di Paolo. L’arrabbiatura che
rapidamente cede prima al tentativo di capire e poi si apre a
una calda e patita esortazione. Ma tra la composizione
tipografica del libro e la sua pubblicazione, la morte di Paolo
ha di colpo trasformato quelle pagine in un documento di
valore altissimo, in un vero e proprio testamento spirituale.
Ecco la ragione della mia emozione.
Elio Vittorini avrebbe detto che Paolo soffriva per i dolori del
mondo offeso, ma non avrebbe mai potuto dire che cadeva in
astratti furori. I furori di Paolo erano ben concreti, avevano
persino nome e cognome. Ma in cosa consisteva la sofferenza
di Paolo soprattutto negli ultimi tempi? Da cosa vedeva offesa
l’Italia? Le risposte sono tutte in questo libro. L’offesa
primaria, quella dalla quale ne discendono altre, è la
separazione della politica dalla morale. In principio fu
Machiavelli, scrive Paolo, e appresso gli andò Marx. Anche se
mai la scrisse esplicitamente, la famosa frase “il fine
giustifica i mezzi” riassume assai bene il pensiero di
Machiavelli. Ed è divertente vedere l’elenco che Paolo fa di
alcuni prefatori del Principe. Comunque sia, Machiavelli non
specifica la qualità  del fine, direi l’assolutezza di un fine che
possa giustificare qualsiasi mezzo per la sua realizzazione. In
mancanza di questa specifica, tutti i fini sono da intendere
buoni? Se il fine supremo di Hitler era la purezza della razza
ariana, lo sterminio degli ebrei può esserne giustificato? Chi
stabilisce la bontà, la validità  del fine? Colui che vuole
raggiungerlo? E comunque ricordiamoci sempre che
Montaigne diceva che i cattivi mezzi adoperati per un buon
fine inquinano il fine stesso, l’adoperare i cattivi mezzi è
segno della fragilità  della coscienza umana.
Quell’iniziale separazione tra politica e morale dunque si è
andata via via allargando fino a diventare talmente grande che
non è più possibile vedere le opposte sponde. E si è arrivati a
questi miserabili giorni nostri dove il problema si è a un tempo
complicato e semplificato, vale a dire che non si tratta più del
rapporto tra politica e morale, ma del rapporto tra politica e
codice penale. E quando si arriva a questo punto nasce la
paura della possibilità  del non ritorno. D’altra parte, c’era
d’aspettarselo. Perché in Italia non è andata al potere una
destra veramente liberale, alla quale io personalmente avrei
fatto tanto di cappello in nome dell’alternanza democratica,
ma, come ha scritto Franco Cordero, è andato al potere il
governo della filibusta. La filibusta, come ognun sa, è al di
fuori della legge. E quando arriva al potere non può che
legiferare secondo gli interessi della filibusta. Dalle mie parti
c’è un detto, “‘u pisci feti di la testa”, il pesce comincia
a putrefarsi dalla testa. E quindi, quando alla testa c’è la
corruzione, il malaffare, tutto il corpo del pesce viene
rapidamente infettato. Come abbiamo fatto a cadere così in
basso?-si chiede Paolo.
Non c’è dubbio che la filibusta è stata eletta a larga
maggioranza. Quindi quella maggioranza di elettori che l’ha
votata appartiene idealmente alla filibusta? La domanda
merita, a mio avviso, una risposta alla Paolo Sylos-Labini. Io
credo che gran parte di quelli che hanno votato questa
maggioranza siano pericolosamente inclini, o per ignoranza o
per partito preso, alla piccola e quotidiana illegalità. Oggi
impera la legge del motorino: il motorino che passa col rosso,che sorpassa quando non dovrebbe, che sale sui marciapiedi,
che corre contromano sotto gli occhi indifferenti degli addetti al
traffico. La legge del motorino è una metafora di ciò che
vorrebbero gran parte degli italiani. L’altra parte ha votato la
filibusta perché non sapendo dove andare dopo Mani puliti ha
scelto quello che è stato abilmente spacciato come il nuovo.
Un’altra parte ancora perché subornata dall’assillante,
frastornante tam tam mediatico. Quindi il compito di chi
governerà  dopo l’anomalia è assai duro, oltre a riparare al
danno economico, bisognerà  ricucire lo squarcio prodotto nel
concetto di legalità  e cominciare a colmare l’abisso che
separa la morale dalla politica. E Paolo esorta, addirittura
implora chi dovrà  assumersi quest’immane compito ad
abbandonare il cinismo politico, che non potrà  essere altro
che fonte di nuovi e rinnovati mali. Acutamente Paolo nota che
Machiavelli non aveva nessuna fiducia nell’uomo. Lui invece
ce l’aveva. E profonda. Da parte nostra, l’unico modo che
abbiamo per tener fede alla sua laica fede, per onorarlo, è
quello di continuare a dargli speranza.

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