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caffeConobbi Federico Caffé mentre con altri compagni e compagni  della CGIL ero impegnato in una cosa che si chiamava Terza Componente, per distinguersi dalle correnti comunista e socialista del sindacato. Con Tonino Lettieri, con Elio Giovannini e tanti altri, convinti già  negli anni Settanta che rompere le cinghie e i cinturini di trasmissione fra i partiti e i sindacati fosse una  condizione imprescindibile per costruire in Italia un sindacato autonomo, unitario e democratico. Capace di essere in proprio soggetto politico, perché libero di costruire elementi di politica economica a partire dalle condizioni e dai problemi dei lavoratori- l’occupazione, il salario, la dignità  del lavoro- senza sentirsi vincolati dalle scelte dei partiti, in cui i contenuti programmatici erano sempre più spesso piegati alle logiche delle alleanze e alle convenienze delle diverse “ditte” che si contendevano il campo.

Non contro la politica, ma nella convinzione che l’autonomia dei soggetti sociali fosse la condizione per arricchire la politica di contenuti e di punti di vista che solo il rapporto in presa diretta col mondo del lavoro poteva esprimere.  Fu una esperienza di grande libertà  e di grande elaborazione culturale, e forse mai come in quel periodo fu vivo il rapporto fra chi lavorava nel sindacato e tanti intellettuali  che ricercavano un rapporto diretto col mondo del lavoro, il più possibile libero sia dal mainstream liberista che cominciava ad essere dominante nell’accademia, sia dai rituali del dibattito fra i partiti che spesso proiettava sulla lettura della realtà  vincoli altrettanto stringenti. Federico Caffè era il più illustre e il più generoso di questi. La stessa passione per l’insegnamento la riversava nei suoi rapporti con il sindacato e coi lavoratori. Indimenticabile il seminario “caffè e latte”, aperto da una sua relazione e da una dell’indimenticabile Renato Lattes, che portava a confronto con le idee di Caffè  la sua esperienza di sindacalista torinese e metalmeccanico.

Non si trattava, come si sente dire oggi, di portare l’economia al popolo, magari per superare le “asimmetrie informative” che rendono imperfetto il mercato, ma si trattava al contrario di superare l’asimmetria informativa dell’accademia che sempre più spesso copriva con formalismi vuoti l’assenza di presa sulla realtà. “Al posto degli uomini abbiamo sostituito i numeri e alla compassione nei confronti delle sofferenze umane abbiamo sostituito l’assillo dei riequilibri contabili“.  Perché il popolo, quello che lavora e quello che il lavoro lo cerca, quello che fatica a trovare risposte ai bisogni elementari su cui si fonda una cittadinanza libera, quello che vive al di sotto delle soglie di povertà, era per Federico Caffè la sola ragione che dava un senso al lavoro dell’economista, come docente, come ricercatore, come cittadino.

Ci insegnava a liberarci dai vincoli che il liberismo e il monetarismo proiettavano sull’agire sociale, anzi ad assumere con coraggio il “vincolo” del nostro lavoro di sindacalisti, quello cioè di trovare risposte al disagio sociale come il punto di partenza per ridefinire le priorità  della politica economica, a livello nazionale ed europeo.

E con pazienza ricercava coi suoi collaboratori e i suoi allievi, nel confronto continuo col mondo del lavoro, le risposte ai problemi difficili, attingendo al suo sapere grande che spaziava da Luigi Einaudi, a Keynes,  al marxismo  non dogmatico, cercando in tutti le idee giuste per dare risposte sensate ai suoi tre problemi fondamentali: il lavoro, la cui mancanza toglie all’uomo libertà  e dignità, il welfare da difendere contro il mainstream liberista ma insieme da rendere più efficace ed efficiente attraverso il cambiamento anche radicale del funzionamento della Pubblica Amministrazione, la lotta contro il crescere delle disuguaglianze, che è il pericolo più grande per la coesione sociale e la stessa democrazia.

Era questo il senso del suo essere riformista. Il muoversi tra le teorie e i punti di vista diversi in funzione delle risposte da dare e delle soluzioni da trovare.  Contro chi rimanda ad un futuro palingenetico la risoluzione dei problemi del presente, e contro chi proclama la più antica e la peggiore di tutte le ideologie, quella di lasciar fare al mercato. Un’indicazione importante anche per oggi. Quando la parola riforma e riformismo è sempre più spesso usata non in funzione dell’aumento del benessere delle persone, ma  per rimuovere diritti e sicurezze che ostacolerebbero  la piena efficienza dei mercati!

Così come parla al presente la sua previsione, già  negli anni ’70, che la costruzione dell’Unione Europea, affidata alle mani dei tecnocrati, e senza che un “parallelismo degli obblighi” riequilibrasse l’impossibilità  degli Stati a valuta debole di manovrare sul tasso di cambio, avrebbe costretto inesorabilmente gli Stati in difficoltà  a manovre restrittive che avrebbero inciso pesantemente sui livelli di occupazione e sulle condizioni di vita dei cittadini di quei Paesi. Gli era chiaro già  allora come l’Unione Europea, dentro il mainstream liberista che si affermava, e con il paese più forte, la Germania, preoccupato in maniera pressoché esclusiva del rischio di inflazione, avrebbe portato a spinte deflazionistiche non controllabili i Paesi più deboli.

E’ a partire da queste riflessioni che hanno lavorato in anni recenti alcuni dei suoi allievi e collaboratori più prestigiosi, da Marcello De Cecco a Fernando Vianello, il cui saggio del 2005, pubblicato dopo la sua morte, su “La moneta unica europea” costituisce forse il contributo più rilevante sulle correzioni necessarie da attivare se non vogliamo che la crisi del debito diventi crisi dell’Europa.

Andrea Ranieri Left 11.01.2014

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