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PENSIERO E AZIONE DI UN GRANDE MAESTRO DELL’ECONOMIA PAOLO SYLOS LABINI
Riflessioni di Siro Lombardini

L’incontro con Paolo Sylos Labini. Le convergenze politiche e scientifiche

Nel suo intervento ad una riunione all’Ape di Torino il 13 gennaio 1986 (Due parole, o più. di
Siro Lombardini ai suoi allievi e amici) Paolo Sylos Labini raccontò come ci siamo incontrati.
Riprendo le sue parole.” Mi dispiace dover cominciare avvertendo che il primato circa gli anni di
amicizia con Siro Lombardini non è di Manara [mio collega all’Università  Cattolica, che ha svolto
il primo intervento]: è mio. Ne sono passati ormai quarantacinque…da quando ho conosciuto Siro
Lombardini. Vi dirò come avvenne il primo rapporto con Siro. Lui sapeva che io ero stato a
Chicago e, programmando (nel 1950) di andarvi, mi chiese consigli, indicazioni, notizie, con una
lettera abbastanza lunga e molto simpatica. Io la feci vedere a Breglia di cui ero allora assistente
(poi Siro mi spiegò che lui conosceva bene il fratello di Breglia, Oreste Breglia, suo professore di
scuola media al Cattaneo di Milano, per cui nutriva affetto e ammirazione). Breglia lesse la lettera e
espresse parole di simpatia per Siro. Io gli avevo risposto sia a voce che per iscritto. Gli detti le
istruzioni necessarie. Emerse subito che abbiamo molti tratti caratteriali simili. … Noi siamo
sempre stati rivali però ci siamo, non solo voluti sempre bene, ma anche aiutati a vicenda; nel
rapporto chi ha aiutato di più è stato lui, non perché io non ne avessi l’intenzione; ma lui, intanto
aveva un senso di concretezza maggiore del mio, ma poi, allora, io ero rimasto orfano,
accademicamente parlando, perché Breglia era morto e invece Siro aveva sempre Francesco Vito
(Vito e Breglia erano in buoni rapporti, due economisti fra i pochissimi che erano stati
all’estero)…Siro, sia nella libera docenza che poi nella cattedra in vari modi…..si dette molto da
fare per aiutare il suo “rivale”. La rivalità  non è necessariamente fonte di contrapposizioni o di
contrasto. … Noi non abbiamo mai litigato in questi quarantacinque anni…abbiamo avuto
divergenze molto civili che non hanno mai dato luogo a spaccature. Eppure i due caratteri non c’è
mica male. … Quando poi siamo diventati ordinari…questo accordo è continuato…Se c’è una cosa
che né Siro né io abbiamo è il settarismo. Siro si dette un gran da fare per appoggiare Fuà  e
convincere lui che era già  ordinario vari economisti [che non simpatizzavano] per Fuà  ebreo. … [Ci
accomuna] anche la concezione che Schumpeter chiamava la visione complessiva”. Paolo Sylos fa
poi riferimento alle posizioni comuni per evitare che i giovani annegassero nel formalismo.
Ripensando a queste esperienze credo che a questi atteggiamenti Sylos ed io siamo pervenuti
anche riflettendo sulla esperienza fascista.
A determinare il nostro netto distacco con il regime è stato, prima ancora delle ragioni politiche,
la ribellione interiore contro ogni imposizione ideologica e la netta ’opposizione contro i poteri
forti’. Io ho maturato questi atteggiamenti nel mondo cattolico. Non potevo accettare certe posizioni
di Pio XII e di De Gasperi. Avevo partecipato alla Resistenza nella Sinistra Cristiana che fu sciolta
per le convergenti valutazioni di Togliatti e di De Gasperi, il primo preoccupato degli atteggiamenti
troksisti del movimento comunista cattolico, politicamente poco rilevante, ma culturalmente
agguerrito, il secondo deciso a mantenere l’unità  dei cattolici, punto fermo nel pontificato di Pacelli.
Sciolta la sinistra Cattolica, mi trovai orfano. Frequentai la comunità  del porcellino dove mi ritrovai
con amici della Resistenza, Lazzati e Dossetti, con Giorgio La Pira e con Fanfani che è stato uno
dei miei professori alla Cattolica. Ma stabilii anche stretti legami con Ferruccio Parri, che incontrai
da Bruno Pagani, il quale aveva inventato e diretto Mondo Economico, con il quale ho collaborato,
con Riccardo Lombardi, con Ernesto Rossi e con Ugo la Malfa. L’amicizia con i simpatizzanti del
Partito d’Azione si intrecciò con quella di Paolo Sylos. Trovavo interessanti alcune motivazioni e
valutazioni comuni al Partito d’azione e al Partito della Sinistra Cristiana, nelle interpretazioni di
alcuni dei leader, Ossicini, Balbo, Sebregondi. Questi due partiti sono stati, con i repubblicani e
alcuni settori dei socialisti e dei liberali, i solo movimenti politici dell’antifascismo che hanno
portato innovazioni sul piano del pensiero e dell’analisi politica. Vi sono stati anche innovatori nel
Partito Comunista. Un nome per tutti Vittorini. Dovettero però presto lasciare il Partito. Nel Partito
d’azione ha maturato le sue esperienze politiche anche Carlo Azeglio Ciampi che rivelerà, non solo
la sua elevata professionalità, ma anche il suo rigore morale e il suo amore per l’Italia e l’Europa
nelle alte cariche che ha ricoperto alla Banca d’Italia, al Governo e al Quirinale.
Quando si rifletterà  seriamente sulla storia italiana ci si accorgerà  dell’’abbaglio’ che impedì una
analisi seria della situazione e dei problemi del Paese appena uscita dall’esperienza fascista: la
percezione dei comunisti come fossero un’armata, più o meno nascosta, che si prepara all’assalto
per instaurare la dittatura del proletariato. In verità  il tessuto connettivo degli iscritti al PCI era la
convinzione che Stalin avesse eliminato il capitalismo e che, solo con riferimento a questa
esperienza, si potesse sperare di liberare il proletariato. Quando, attraverso un opuscoletto
clandestino, venni a conoscenza del discorso tenuto a Salerno da Ercoli di cui si sapeva finalmente
il nome – Palmiro Togliatti – per poco non mi venne un colpo: il governo Badoglio è il governo
legittimo; il re non va cacciato; occorre un governo di solidarietà  nazionale.
Non sono stato mai abbagliato da questa percezione: allora ciò che mi divideva dal PCI non era il
timore di una insurrezione proletaria, ma l’integralismo ideologico che comportava un
appiattimento culturale. La patria dei comunisti era la Russia, una patria lontana come era, per i
cattolici, il paradiso. Nell’ottobre del 1945 parlai, a Milano, alla radio, in una trasmissione di cinque
minuti prima del giornale radio delle 13, assegnati a turno ai vari partiti rappresentati nel CLN della
Lombardia, (ho parlato per la sinistra cristiana). Il tema era i Consigli di gestione. Il giorno dopo
Sereni, Presidente del CNL mi espresse il suo dissenso. Non era opportuno ricordare le tesi di
Gramsci. Per il bene del Paese occorreva mantenere una collaborazione tra tutte le forze sociali ed
economiche. Allora non era conveniente parlare di programmazione.
Nel periodo fascista gli economisti italiani, accademicamente più forti, non hanno portato
contributi rilevanti nella individuazione delle peculiarità  del nostro paese che si era inserito nel
contesto mondiale, nella sua nuova dimensione statale, mantenendo differenze regionali che ne
pregiudicavano l’efficienza. Lo studio dei sistemi di tassazione (la scienza delle finanza) ha
conseguito notevoli successi grazie a Einaudi, Fasiani ed altri. Anche l’analisi del sistema
monetario è stata portata avanti: basti ricordare Del Vecchio e Bresciani Turroni. I contributi allo
sviluppo della ‘teoria’ non sono stati significativi. Con poche eccezioni. Ricordo Fanno, il cui
contributo alla teoria del ciclo merita di essere ricordato.
Una delle contraddizioni del fascismo è stata l’affermazione della supremazia degli interessi
nazionali e, in contemporanea, la gestione della politica economica con criteri liberisti. Mussolini
aveva stigmatizzato i pescecani che si erano arricchiti con la guerra. Nel 1922 scelse come ministro
delle finanze un economista esperto Alberto De Stefani che, tra le prime decisioni, ritirò il progetto
sulla nominatività  dei titoli e abolì il monopolio statale delle assicurazioni sulla vita. Il suo obiettivo
era ridurre i controlli pubblici e promovere l’iniziativa privata. Il tentativo, nel 1925, di stroncare la
speculazione borsistica, gli costò caro. I maggiori esponenti degli industriali convinsero Mussolini a
destituire De Stefani che venne sostituito con il conte Volpi, rappresentante della industria elettrica
che operava in condizioni di quasi monopolio.
Dopo essersi liberato dalla democrazia parlamentare Mussolini volle essere libero di controllare
il gioco tra i vari interessi. Il fascismo andò così delineando una particolare concezione del sistema
economico. Si parla di cooperativismo. La nascita del sindacato fascista è legata alla figura di
Filippo Corridoni un ‘eroe’ della guerra mondiale che aveva portato squadre di lavoratori a
manifestare a favore dell’intervento. La loro ideologia era quella anarchico socialista di un leader
sindacale francese Georges Sorel. Si sfrutta l’ostilità  dei sindacalisti anarchici contro quelli delle
fabbriche per diffondere la teoria che la collaborazione tra lavoratori e imprenditori si possa e si
debba realizzare nell’interesse supremo della nazione. Nel 1927 viene proclamata la Carta del
Lavoro che stabilisce il nuovo orientamento. Nei primi due articoli si afferma che “1) La Nazione
italiana e un organismo avente fini, vita, mezzi di azione superiori a quelli degli individui divisi o
raggruppati che la compongono. E’ una unità  morale, politica ed economica, che si realizza
integralmente nello Stato Fascista. 2) Il lavoro, sotto tutte le sue forme intellettuali, tecniche e
manuali è un dovere sociale. A questo titolo, e solo a questo titolo, è tutelato dallo Stato. Il
complesso della produzione è unitario dal punto di vista nazionale; i suoi obiettivi sono unitari e si
riassumono nel benessere dei produttori e nello sviluppo della potenza nazionale.” A questa
impostazione finirà  per associarsi la richiesta di misure protezionistiche. Il corporativismo ha avuto
diverse interpretazioni: da quella tendenzialmente liberista di Bottai a quella in intonazione
comunista solidarista di Ugo Spirito, un filosofo di grande spessore. Spiccano gli economisti che,
senza modificare le loro posizioni diversificate per le diverse posizioni teoriche rivestano il pane del
corporativismo. Nasce così l’economia corporativa. Economisti di peso come Amoroso, Papa,
Fanno, Arena rivestono i panni dell’economia corporativa. Non mancano economisti di valore che
hanno preso le distanze dal fascismo: Alberto Breglia, Felice Vinci a casa del quale mi trattenevo
alla fine del lavoro in banca (nei primi anni quaranta studiavo e lavoravo) per ascoltare le sue
‘lezioni private’; mi fece conoscere Pareto di cui è stato allievo, Giovanni De Maria che mi ha
incoraggiato a proseguire nella carriera accademica e che ha elaborato una teoria dinamica che
riconosceva il peso determinante di certi eventi esterni: le guerre in particolare; ha avuto un ruolo
rilevante nella ricognizione dei problemi dell’economia italiana come Presidente della
Commissione per lo studio di alcuni problemi dell’economia italiana di grande rilievo per
l’Assemblea Costruente.
Quando ai primi anni ottanta preparai per la Rai una trasmissione documentario sulla Grande
Crisi, fui impressionato dalla incapacità  sia di diagnosi e di prognosi di alcuni grande economisti
come Einaudi e Papi. Il solo economista tra quelli che ho consultato che ha compreso il carattere
specifico e le prospettive drammatiche della depressione è stato Arias, un economista fascista che
dovrà  lasciare poco dopo il paese perché ebreo.
Sia per preservare lo spirito dell’economia corporativa, sia per marcare la politica
protezionistica, non furono incoraggiati viaggi all’estero di giovani economisti. Quando Paolo ed io
abbiamo incominciato la nostra carriera universitaria subito dopo la Liberazione, non abbiamo
avuto difficoltà  a completare i nostri studi all’estero, nelle famose università  inglesi ed americane.
Abbiamo incoraggiato i nostri allievi a fare altrettanto. Nelle commissioni per le libere docenze e
per i concorsi a cattedre, che ci hanno giudicato prevalevano i professori del regime autarchico: una
situazione che ha creato, soprattutto a Paolo, per le ragioni che ha ricordato, qualche problema.
Paolo Sylos Labini, Fuà, Caffè ed io eravamo schierati con i lavoratori, nel senso non classista
del termine che ci pareva ambiguo e non adeguato ai tempi. Non condividevamo la posizione dei
liberisti i quali ritenevano di poter lasciare al mercato la soluzione dei problemi di efficienza (ma
quale efficienza?). Non eravamo d’accordo con i marxisti che puntavano a un cambiamento
necessario per sostituire al mercato l’economia centralizzata. Occorreva realizzare una politica
attiva che puntasse alla crescita e ad una maggiore equità  sociale: due obiettivi strettamente
correlati tra di loro. Per questo parlavamo di programmazione. Sarà  La Malfa a portare questo
concetto nel dibattito politico, parlando di programmazione non come di schema previsivo utile per
orientare la politica economica (come era il Piano Vanoni), ma come la sola impostazione che può
collegare tra di loro i vari momenti della politica economica. Ugo La Malfa mi telefonò
chiedendomi di far parte del Comitato per la Programmazione che intendeva creare. Gli risposi di
no. “Se tu rifiuti, anche Sylos rifiuta”. Accettai la nuova avventura, dalla quale sia Sylos che io
siamo usciti delusi.
Paolo Sylos Labini era stato colpito dalle condizioni d’arretratezza del Mezzogiorno, la sua vera
patria (ha organizzato una ricerca sulla condizione dei lavoratori). Io avevo sperimentato le
ingiustizie sociali di cui erano vittime operai e contadini (mio padre lavorava negli alberghi). Le
ingiustizie non si manifestavano solo attraverso le inique distribuzioni dei redditi; apparivano anche
dalle discriminazioni sociali e dalle preclusioni nell’accesso ai servizi sociali.
La rivoluzione dell’economia dopo la grande depressione: in crisi il concetto di equilibrio e di
concorrenza
Nelle riflessioni storiche di entrambi la grande crisi ha giocato un ruolo centrale. Keynes è stato
considerato il teorico che aveva diagnosticato la crisi e fornito la ricetta per risolverla. Di questo né
lui né io siamo mai stati convinti. Quando Paolo Sylos era a Cambridge a contatto con gli allievi di
Keynes, scelse come supervisore Dennis Robertson, più deciso nelle critiche al sistema. A
Cambridge mi recai anch’io. Il mio punto di riferimento divennero Joan Robinson, Maurice Dobb e
Richard Stone. A Cambridge diventammo entrambi, in anni successivi, amici di Piero Sraffa. Sraffa
è stato il primo economista moderno che, osservando che la maggioranza delle imprese industriali
produce in condizioni di costi decrescenti, ha suggerito di abbandonare l’ipotesi di concorrenza per
orientarsi verso quella di monopolio. Un suggerimento che Joan Robinson ha accolto con la sua
Teoria della concorrenza imperfetta che vide la luce nel 1933. Sraffa si rendeva conto – come
mostra Roncaglia – che la teoria degli equilibri parziali di Marshall doveva essere superata. Né ci si
poteva riparare nella teoria paretiana dell’equilibrio generale, essenzialmente statica. Fu così che
Sraffa concepì la sua opera Produzione di merci a mezzo merci. Paolo Sylos Labini, nel suo
Progresso tecnico e sviluppo economico, nota come il modello di Sraffa sia un modello dinamico
che studia una economia stazionaria, al fine di risolvere il problema della relazione tra salari e
saggio di profitto. Questo problema era al centro dell’analisi di Ricardo, la quale considerava la
relazione tra salario e saggio di profitto con riferimento alla limitazione del fattore terra che
comprende diverse qualità. Simili modelli non colgono l’essenza dello sviluppo economico che è
associato alle innovazioni tecnologiche, le quali, invero, non avvengono in modo uniforme nei vari
settori e, in ciascun settore, possono essere realizzate solo da certi tipi di imprese. Pasinetti ha
elaborato un modello settoriale in cui grazie ad alcune assunzioni può separare gli effetti di
variazioni nei coefficienti tecnici da quelli che si verificano nei coefficienti della domanda. Il
problema centrale con cui Sylos ed io ci siamo confrontati è, però, come spiegare, dall’interno
della teoria, le variazioni nelle strutture tecnologiche e in quelle dei consumi. Siffatti cambiamenti
possono verificarsi in conseguenza di eventi esterni.
Quando il concetto di equilibrio è applicato per definire la struttura normale del sistema ci si
imbatte in tre ordini di difficoltà: a) la situazione normale dipende anche dalle aspettative:
l’equilibrio ex post quando si conoscerà  il valore ‘vero’ delle grandezze diversamente stimate
differirà  dall’equilibrio ex ante con il quale abbiamo espresso la situazione normale; b) la situazione
normale è definita con riferimento a un dato numero di mercati ciascuno caratterizzato da una
merce omogenea; c) i comportamenti di richiedenti ed offerenti risultano da processi di
ottimizzazione che si assumono simultanei e tra loro compatibili. Quando si considera un processo
di equilibrio dinamico (sentieri di crescita sostenibili), si può scegliere tra due possibili vie che
comportano entrambe difficoltà  che sono insolubili se si assume che le decisioni sono prese in
mercati concorrenziali. 1) Se la crescita è uniforme, allora il sentiero è sostenibile solo se
l’equilibrio che si osserva in un certo momento è sullo stesso sentiero sul quale ha viaggiato
l’economia nel passato e viaggerà  nel futuro. Si pongono allora problemi di interpretazione (con
riguardo soprattutto al ruolo della moneta; si pensi ai modelli dell’autostrada, (turnpike models) e di
stabilità  (ricordo il contributo di Terenzio Cozzi), 2) Se si assume che le decisioni sono prese in un
orizzonte limitato si pongono i problemi circa la possibilità  di ottimizzazione delle scelte che sono
stati analizzati da Malinvaud. Si pone anche quello delle interazioni tra generazioni che è stato
posto e affondato da Samuelson. E, preliminarmente, quello delle scelte di un individuo nelle
diverse fasi di età. In effetti – come ha mostrato Modigliani – la ripartizione del reddito tra consumi
e risparmio varia per le diverse età.
In tutti questi modelli si descrivono processi ideali di sviluppo. Simili analisi non sono inutili se
vengono considerate come esplorazioni in grado di armare le nostre capacità  di osservazione così da
poter formulare ipotesi di spiegazione dei processi reali nei contesti specifici che l’evoluzione
storica pone sotto i nostri occhi. Il problema – ripeto – resta quello di come si produce lo sviluppo
dall’interno dell’economia. Esso non può essere affrontato in modelli che sono condizionati dai
concetti parziali di razionalità  che sono state elaborati nelle varie teorie economiche.
Da diverse prospettive abbiamo esaminato i problemi che riguardano i limiti della concezione
classica della razionalità  economica e dei modelli macroeconomici. In effetti, il gruppo di
economisti – nel quale Paolo ed io siamo stati inclusi – che, come è riconosciuto in diverse
annotazioni storiche, ha fornito a molti giovani di un paio di generazioni, indicazioni di temi e di
metodi, ha indicato varie ragioni per cui occorre superare la logica dei modelli neo classici. Al
centro dell’impegno dell’economista si deve porre la ricerca dei fattori strutturali che plasmano i
processi economici nel tempo. Forse un maggior impegno, in questa direzione, negli anni venti
avrebbe potuto consentire di capire che quello che verso gli ultimi anni del decennio si prospettava
non era un normale ciclo economico, ma una crisi del sistema, suscettibile di sbocchi drammatici.
Per Paolo Sylos e per me la causa era da ricercarsi nelle particolari strutture di mercato che si erano
affermate. Tesi simili, diversamente argomentate, sono state sostenute da Joan Robinson e da
Rothschild.
Allora non basta affrontare il problema dei cambiamenti strutturali dell’economia che si
collegano con cambiamenti nel sistema socio-culturale (consumismo). Occorre affrontare il tema
del potere. Un impegno che si pone a politici e a economisti. Non è stato casuale il nesso che ha
legato a Ernesto Rossi, sia Paolo che chi scrive e che ci porterà  a simpatizzare per la nuova
iniziativa giornalistica di Eugenio Scalfari che con il quotidiano La Repubblica, fornisce alla
pubblica opinione la possibilità  di liberi dibattiti sulle prospettive reali del paese..
Contro il potere non si debbono schierare solo delle teorie. Occorre schierare il rigore morale e
l’impegno civile. La passione politica di Paolo, che ha riempito anche l’ultima sua notte, conferiva
al suo insegnamento un fascino eccezionale.
Le nuove teorie del mercato e la critica del marginalismo
La teoria dell’oligopolio di Sylos Labini che ho visto nascere – avendo avuto con lui diversi
colloqui durante la prima stesura ed anche nel processo di revisione che ha portato alla seconda
edizione (come Paolo ricorda nella prefazione della prima e in una nota della seconda) – presenta
una novità, rispetto alle trattazioni che si collegano alle concezioni neoclassiche. Non sono gli
ostacoli all’entrata che danno origine a forme non concorrenziali, ma è la concentrazione della
produzione in poche grandi imprese che crea ostacoli all’entrata. A determinare la grandezza
dell’impresa è il rapporto tra il suo livello produttivo e la dimensione del mercato in cui essa opera.
Come nascono le grandi imprese? Non c’è modello che possa spiegarlo (un’affermazione pacifica
per chi crede al ruolo dell’imprenditore schumpeteriano). Quando si è stabilito un certo numero di
imprese ‘grandi’, l’entrata di altre imprese di questo tipo non è consentita, possono però entrare
imprese (relativamente) piccole. Vi possono essere tecnologie efficienti a diversi livelli di
produzione. L’innovazione tecnologica è propria delle grandi imprese.
Paolo Sylos Labini è ben consapevole dei limiti del modello semplificato che ha prodotto. E’ però
grazie a questa semplificazione che si possono chiaramente individuare i limiti del pensiero
neoclassico, in particolare per quanto riguarda la concezione dell’equilibrio e del ruolo del
progresso tecnico. Nel suo lavoro ha concentrato la sua attenzione alle situazione di oligopolio
concentrato. Ha indicato anche un secondo tipo: l’oligopolio differenziato. Leggiamo quanto ha
scritto nell’opera già  citata Progresso tecnico e sviluppo ciclico. “Nei mercati in cui prevalgono le
economie di scala e i prodotti sono economicamente omogenei – come nell’acciaio e nella chimica
di base – emergono situazione di oligopolio concentrato; nei mercati in cui prevalgono la
differenziazione dei prodotti emergono situazioni di oligopolio differenziato; si può parlare di
oligopolio misto nei mercati in cui sono importanti sia le economie di scala sia la differenziazione e
al diversificazione dei prodotti promossi da investimenti nella pubblicità  e nella ricerca … le
situazioni di oligopolio differenziato e di oligopolio misto … costituiscono la regola nel
commercio al minuto, dei servizi privati e, in particolare, nel credito.” Quanto al modello di
determinazione del prezzo esso “deve contemplare a quali condizioni una guerra di prezzi è
conveniente, quando invece è vantaggiosa per tutti una convivenza pacifica particolarmente nei
mercati in cui prevale l’oligopolio concentrato, in cui le imprese che guidano i prezzi sono grandi o
molto grandi.” Vi sono i temi che riguardano le scalate e altre operazioni suscettibili di rafforzare il
potere. Il mondo finanziario va assumendo un rilievo crescente. Oggi esso domina il sistema
produttivo.
Il distacco dalle concezioni neoclassiche è netto. Non vi è una situazione di equilibrio. E’ la stessa
nozione di equilibrio che è priva di senso. Nella mia monografia del 1953 Il monopolio nella teoria
economica ero arrivato, con argomentazioni diverse, a conclusioni simili a quelle di Paolo nella sua
opera sull’oligopolio. Il punto debole della concezione neoclassica è il concetto di funzione di
produzione, in quanto non vi sono diverse tecniche di produzione tra le quali l’imprenditore può
scegliere, essendo esse tutte a lui ugualmente accessibili. La tecnologia che un imprenditore pone in
essere dipende da alcune condizioni iniziali che sono destinate a mutare nel tempo: le disponibilità 
finanziarie che aumentano quando egli ha potuto dimostrare alle banche le sue capacità; l’ampiezza
del suo mercato il quale può allargarsi in seguito alle innovazioni nei prodotti, alla associazioni di
nuovi prodotti ai vecchi, alle attività  pubblicitarie che diventano più efficaci al crescere delle
dimensioni. Il quadro degli ostacoli alla libertà  di entrata può complicarsi per le relazioni
oligopoliste che possono sussistere tra imprese che già  operano sul mercato e imprese che in esso
possono entrare. Alle imprese che possono tra loro interagire non è associato lo stesso prodotto o la
stessa combinazione di prodotti. Ai vantaggi che un imprenditore acquisisce con il passare del
tempo corrispondono svantaggi per coloro che vogliono entrare. Anche queste mie argomentazioni
portano alla conclusione che le barriere all’entrata non sono la causa o una semplice condizione
favorevoli al formarsi di situazioni monopoliste, ma, al contrario, un sottoprodotto del formarsi di
simili situazioni. In un lavoro di economia computazionale – di simulazioni ottenute con la
formulazione di diverse ipotesi strutturali circa una economia rappresentata da un modello dinamico
definito in certe caratteristiche e sulla base di diverse ipotesi circa i valori dei parametri e le
dinamiche delle variabili esogene – ho potuto delineare i possibili sviluppi in diverse forme di
mercato. Le ipotesi strutturali nel mio modello erano state poste in modo da poter studiare processi
schumpeteriani a cui si associano processi di tipo darwiniano. Un risultato interessante con riguardo
allo sviluppo del sistema è l’importanza della flessibilità  accanto a quello delle efficienza della
tecnologia. Nella teoria di Sylos è proprio la varietà  delle strutture possibili che assicura la
flessibilità  del sistema. Una delle ipotesi è espressa con un coefficiente che esprime la propensione
alla crescita dell’imprenditore che ha un ruolo determinante in quanto si suppone che la quantità  di
lavoro si adatta sempre alla domanda grazie all’immigrazione di nuovi lavoratori o l’emigrazione di
vecchi. Quando i livelli sono troppo bassi il sistema entra in recessione. Un risultato questo che
appare anche dall’analisi di Sylos.
Ecco come. Per Sylos Labini le strutture oligopolistiche possono avere una influenza negativa
sulla crescita. Se la produttività  cresce a ritmi elevati e la popolazione non si espande a tassi
adeguati, si crea una disoccupazione. Nel mio lavoro del 1953 indico come possibile causa di
ristagno o decelerazione imputabile al monopolio l’aumento dei profitti quando non appare
conveniente investire, perché i lavoratori non sono in grado di sviluppare una domanda adeguata.
Questa argomentazione è simile a quella sviluppata dalla Robinson. Il monopolista – affermo nel
mio lavoro – può allontanare questa prospettiva con le attività  di promozione delle vendite che
hanno, sia l’effetto di ridurre i profitti, sia quello di aumentare i consumi. Ma allora non regge più il
riferimento alle preferenze dei consumatori, fondamentale nella teoria neoclassica e nelle
concezioni neoclassiche del benessere. Il consumismo cambia le caratteristiche sia del sistema
economico con alcune conseguenze negative. In effetti le sole due vere globalizzazioni sono quella
della finanza e quella dei modi di consumo; le conseguenze della seconda sull’ambiente sono ormai
sotto gli occhi di tutti. La radicale modifica del sistema sociale è stata efficacemente interpretata
nell’altra opera di rilievo storico di Paolo Sylos Labini: quella sulle classi sociali.
In saggi relativamente più recenti ho sostenuto che il monopolio può, in certe situazioni, favorire
la crescita. Questa affermazione mi è parsa confortata dalle esperienze del miracolo italiano e della
reaganeconomics. Essa non contraddice le tesi di Paolo Sylos e le mie del 1953. Nel miracolo la
crescita è stata possibile perché, nei nuovi settori industriali, la produttività  è cresciuta a ritmi
superiori a quelli ai quali sono aumentati i salari. Hanno potuto aumentare i profitti che hanno reso
possibile un aumento dell’efficienza. In presenza di una domanda mondiale in crescita, il nostro
paese ha potuto espandere le esportazioni. In conseguenza della rivoluzione consumistica anche la
domanda interna è cresciuta. Si è creata una armonia di disequilibri, la sola che rende possibile il
moto dell’economia così come ci consente di correre con la bicicletta senza cadere. L’armonia dei
disequilibri è venuta meno, quando nei primi anni sessanta si è avuto un tasso di crescita dei salari
superiore a quello che si registrava nella produttività. Considerazioni analoghe si possono fare a
proposito della lunga fase di espansione che si è avuta con la politica di Reagan.
Resta ancora una volta confermata la tesi centrale delle opere su oligopolio e monopolio di Paolo
Sylos e mie. I meccanismi di crescita e di riequilibrio non vanno cercati all’interno dell’economia,
così come viene definita dai neoclassici. Se si parte da queste riflessioni si può essere indotti a
ritenere che, per eliminare la disoccupazione, basta aumentare la spesa pubblica. E’ quanto
affermano i keynesiani. Ma anche su questo punto convengo con la tesi di Paolo Sylos Labini, che è
stata efficacemente espressa anche da Sergio Steve. La spesa pubblica in genere non aumenta la
produttività  del sistema. Provoca reazioni che possono produrre l’effetto inverso. Le riflessioni che
ho avuto modo di fare, nel 2006, sull’evoluzione dell’economia italiana come appare dalle relazioni
dei tre governatoti – Carli Baffi e Ciampi – confermano questa affermazione.
Il problema della disoccupazione
Paolo Sylos Labini, nel 1994, in un saggio che scrisse per la raccolta di saggi che, in mio onore,
fu curata da Terenzio Cozzi, Pier Carlo Nicola, Luigi Pasinetti, Alberto Quadrio Curzio, affrontò
con rigore e ampiezza di vedute il problema della disoccupazione: le critiche alla macroeconomia
vengono ribadite e ‘verificate’ proprio con riferimento all’obiettivo di politica economica che è
associato al pensiero di Keynes. Cinque sono i punti deboli della teoria di Keynes.
Il primo riguarda l’ipotesi la possibilità  di trattare il volume della occupazione come un
aggregato omogeneo. di omogeneità  del lavoro. Questo fatto appare subito se si considerano le
differenziazioni di lavori simili in diversi settori (agricoltura e industria). Cresce fortemente
l’occupazione nei servizi dove le ‘imperfezioni’ assumono un particolare rilievo. Non sono però
solo i fattori economici a rendere possibile associare la variabile salario alla quantità  di
occupazione. Sono anche i fattori socio-culturali. Sia Paolo che io abbiamo preso in particolare
considerazione i paesi del terzo mondo. Si stabilisce una gerarchia tra tipi di lavoro e etnie. I lavori
più ‘umili’ (i meno rimunerati, ai quali sono associati stati sociali inferiori) sono svolti da
appartenenti a particolari etnie: negli Stati Uniti ai negri. Attualmente in Italia sono utilizzati gli
extracomunitari. Più convenienti gli immigrati clandestini che debbono accontentarsi di salari da
fame e non hanno alcuna protezione sociale.
Di attualità  è poi un’altra considerazione che Sylos sottolinea nel saggio ricordato. La riduzione
dei salari ha scarsa efficacia sul livello di produzione, non per le argomentazioni keynesiane, ma per
altre ragioni. L’effetto positivo è la riduzione dei costi per le imprese: a questo effetto si
contrappone l’effetto (negativo) della riduzione della domanda globale. Noto (tra parentesi) che
l’effetto riduzione dei costi è rilevante solo in certe imprese: in quelle che usano tecnologie labour
intensive: tali non sono le grandi imprese che giocano un ruolo fondamentale nella crescita della
produttività  che induce una riduzione della domanda di lavoro. Le considerazioni sull’effetto
positivo della riduzione dei salari – via costi – si intreccia con l’altro già  ricordato che la crescita
della produttività.
Credo che, con riferimento all’evoluzione tecnologica recente, a seguito soprattutto della
rivoluzione informatica, la riduzione dei salari, così come una eccessiva mobilità  del lavoro, può
influire negativamente sulla propensione del lavoratore a sviluppare le sue attitudini
all’apprendimento e la sua capacità  di adattamento. Paolo Sylos osserva che “ E’ un errore pensare
che, quanto minori soni i vincoli e quanto più intensa è questa mobilità, tanto meglio è per il
processo di sviluppo: una certa sicurezza dell’impiego, infatti, promuove la lealtà  e l’attaccamento
del lavoratore verso le imprese: ciò che promuove la loro efficienza: ma una piena sicurezza premia
la pigrizia e l’assenteismo, come l’impiego pubblico ampiamente dimostra.” (pp. 131-2)
Si scontrano, così, in varie situazioni due esigenze. Da un lato occorre favorire i trasferimenti dei
lavoratori per favorire lo sviluppo tecnologico (attraverso i processi schumpeteriani); dall’altro
occorre consentire che, attraverso le sue esperienze in un contesto stabile, il lavoratore aumenti la
sua capacità  di apprendimento. Decisivo è la filosofia che prevale nell’organizzazione della scuola.
In un convegno dell’Ocse, al quale partecipai come delegato del Ministero della Pubblica
Istruzione, ebbi modo di scambiare delle opinioni con il Presidente della Sony. Mi colpì una sua
affermazione. Non conta la preparazione tecnica, che tutti debbono farsi all’interno dell’impresa,
ma la capacità  di adattamento (e di critica). Il suo vice è un laureato in musica. Il massaggio che
diedi, al ritorno in Italia, al Ministro della Pubblica Istruzione, la Falcucci, lo riassunsi in una
battuta: alla scuola si deve andare non per imparare, ma per imparare ad imparare.
I processi schumpeteriani possono provocare aumenti nei salari. Le imprese più innovative
hanno interesse ad attrarre lavoratori per realizzare tecniche che aumentano la produttività  del
lavoro. In un contesto di piena (o quasi) occupazione questo può provocare un aumento dei salari
che può stabilizzarsi quando tutto il sistema ha tratto beneficio dall’accresciuta produttività  del
lavoro. Può essere che la propensione a realizzare gli investimenti ‘normali’, regolati dal
rendimento attuale del capitale, sia tale da assorbire tutto il risparmio disponibile. Questo non
impedisce all’imprenditore schumpeteriano di realizzare gli investimenti anormali. Lo può fare
indebitandosi con le banche. Quando, in seguito a questi investimenti, i suoi profitti saranno
aumentati, l’imprenditore potrà  rimborsare le banche. Questo processo può causare l’insorgere di
tensioni inflazionistiche.
Vale anche la relazione opposta tra aumenti salariali e innovazione. A volte è l’aumento dei
salari che spinge gli imprenditori ad innovare. Nota Paolo Sylos nel saggio che ho ricordato
all’inizio di queste riflessioni che “”Fra i diversi fattori [che possono portare ad una accelerazione
dei processi di meccanizzazione] troviamo gli aumenti salariali, che non sono necessariamente
determinati dai conflitti e che, quando superano l’aumento del prezzo delle macchine, stimolano
l’introduzione di macchine risparmiatrici di lavoro, robot compresi.” (p. 127).
Questo fatto può portare ad una situazione che può sembrare paradossale: nel mercato del lavoro
coesistono scarsità  e eccedenza di lavoro: scarsità  di lavoro qualificato di cui aumenta la domanda,
e eccedenza di lavoro non qualificato, che non è conveniente occupare nella misura che si è resa
disponibile. E’ la situazione che si è determinata in Italia all’inizio degli anni sessanta. In questa
situazione i salari sono cresciuti più della produttività  del lavoro, in conseguenza della accresciuta
forza dei sindacati indotta dall’aumento della domanda di lavoro qualificato. E’ saltato il
disequilibrio che, come abbiamo avuto modo di osservare, è stato una condizione necessaria per il
miracolo economico.
Merita di essere ricordata l’osservazione di Paolo sulla crescita della pubblica amministrazione
nel settore pubblico. Questo avviene, specie per alcuni settori, in quanto i politici possono
conservare e rafforzare il loro potere procurando un ‘posto’ (non necessariamente un ‘lavoro’) a
coloro che sono in grado di procurare voti.
Il problema dell’orario di lavoro ha una rilevanza che è spesso sottovalutata e mal interpretata.
La riduzione dell’orario di lavoro ha finito per produrre dei vantaggi anche alle imprese, come
sottolinea Paolo Sylos a partire alle riflessioni appena ricordate. Voglio aggiungere una riflessione
che l’evoluzione degli anni venti dell’economia americana suggerisce. La seconda rivoluzione
industriale rendeva possibile una forte riduzione degli orari di lavoro. Ford, negli Stati Uniti, ha
predicato l’aumento dei salari. Non solo nella sua industria, ma in tutta l’economia. Aveva fiutato la
possibilità  della rivoluzione consumistica. Ha progettato una macchina, che poteva essere prodotta
in massa e venduta a prezzi accessibili anche ad alcune categorie del ceto medio – quelle
individuate da Sylos Labini delle quali diremo fra poco – in grado, che con la loro domanda sono in
grado di aumentare il mercato potenziale. La automobile diventa uno dei beni di consumo a cui
diventerà  difficile rinunciare a che tutti desiderano possedere. Un Ford di oggi dovrebbe predicare
la riduzione dell’orario di lavoro, non solo per ridurre la disoccupazione, ma anche per rendere
possibile una sempre più diffusa fruizione dei nuovi consumi informatici che richiedono un
aumento dell’ozio nel senso latino del termine.
La rivoluzione consumistica ha, a sua volta, aumentato i servizi. L’aumento dei servizi ha ora un
altro effetto positivo. Rende più facile la ristrutturazione delle industrie la cui importanza è più
volte sottolineata da Sylos.
La redistribuzione dei lavoratori tra i vari settori e spesso dovuta a fattori socio-culturali. Ben ha
fatto Paolo a sottolineare l’importanza della scuola nel determinare modalità  ed efficienza dei
fenomeni di redistribuzione. Quando mi occupavo del Piano per lo sviluppo dell’Umbria, alla fine
degli anni cinquanta, la ricerca che ho promosso per cogliere la dinamica dei vari settori mise in
evidenza la rilevanza quantitativa dell’esodo dalle campagne. Esso non è ascrivibile a motivi
pecuniari. I contadini guadagnavano più degli operai ‘marginali’. Il lavoro del contadini richiese
expertise più elevate di quelle che acquista un operaio. La ragione lo indicavano gli stessi giovani
che lasciavano le campagne. “le ragazze non ballano con noi perché puzziamo di stalla”.
Queste trasformazioni inducono a riflettere su certi concetti centrali dell’economia. In una
intervista fattagli da Arturo Di Corinto Paolo Sylos Labini ha affermato – in coerenza con le sue
opinioni sulla macroeconomia – che il Pil non è un concetto ben definito ed ha aggiunto. “Certo non
tiene conto dei costi sociali e ambientali della ricchezza che dovrebbe misurare. In particolare, non
tiene conto dei disastri ambientali che un’industria vecchia e obsoleta provoca.” Ma ha anche
aggiunto: “Ciò nonostante, quelli che hanno posto il problema di ‘come la mettiamo col Pil e con
l’inquinamento?’, o che si sono chiesti ‘come ne teniamo conto?’ pure quelli non hanno una risposta
definitiva. Alcuni rispondono: ‘ne terremo conto quando i problemi si presenteranno’. Eh no! I
problemi non vengono fuori subito e non sempre lo fanno in maniera evidente.”
Stefano Sylos Labini, che nelle sue ricerche rivela la passione del padre, in due saggi, scritti con
Marco Iezzi, che ho avuto modo di leggere, ha affrontato alcuni dei problemi indicando possibili
soluzioni. Riporto uno dei suoi passaggi: “Accanto agli investimenti per il risparmio e l’efficienza si
devono potenziare gli investimenti nelle fonti alternative. Oggi l’eolico è già  competitivo in molti
paesi con costi simili a quelli del gas e poco al di sopra di quelli del carbone. Eppure l’Italia ha solo
1.800 MW di energia prodotta da questa fonte, mentre la Germania ne possiede oltre 17mila MW.
D’altro canto, lo sviluppo di fonti energetiche alternative è necessario anche per rispettare i vincoli
del Protocollo di Kyoto. Nel 2004 le imprese energetiche italiane hanno speso in ricerca e sviluppo
appena lo 0,6 per cento del fatturato, mentre vi sono alcune grandi compagnie petrolifere – per
esempio British Petroleum – e imprese tradizionali, come General Electric, che stanno
diversificando la produzione e stanno investendo in modo massiccio nelle fonti alternative e nelle
tecnologie ‘pulite’.”
In un mio lavoro degli anni ottanta sul problema dei rifiuti, avevo indicato nell’incenerimento il
metodo più efficace e più economico per eliminare quelli non riciclabili. I verdi, in Italia, hanno
orientato le loro frecce contro questo metodo. Non si erano accorti che nel Sud d’Italia i rifiuti
vengono sotterrati. Il risultato è l’avvelenamento del terreno con gravi danni per le culture, gli
animali e l’uomo. Purtroppo non solo manco un ‘interesse’ a modificare la cultura. Vi sono interessi
a mantenere certe forme di inquinamento.
L’avvento del ceto medio e le modifiche epocali del sistema socio economico.
Il fascismo era riuscito ad assicurarsi un sostegno dal basso: quello dei ceti medi. L’entusiasmo
dei contadini che affluivano in massa a Piazza Venezia, il senso di potere che ha ridato a molti del
ceto medio (insegnanti e piccoli professionisti) mettendoli, vestiti con l’orbace, a capo dei balilla e
degli avanguardisti nelle manifestazioni del sabato fascista delineano gli strati sociali che vivevano
convinti la nuova realtà  politica.
Nella sua opera sulle classi sociali, Paolo Sylos Labini analizza nella sua struttura ed evoluzione
quello che si può chiamare ceto medio. E’ noto che per Marx le classi che sono emerse dalla
rivoluzione industriale, e che giocheranno un ruolo decisivo nella sua evoluzione e nella
configurazione della sua fine, sono la borghesia e il proletariato. La fine del capitalismo coinciderà 
con l’avvento del comunismo. Marx non ignora la presenza di ceti medi. Essi sono però destinati ad
assimilarsi, alcuni con i borghesi e gli altri con il proletariato.
Sylos dimostra che l’evoluzione sociale smentisce diagnosi e prognosi marxista. La sua accurata
analisi delle variazioni nella distribuzione del reddito, “importante non per il suo livello, ma per il
modo in cui si ottiene”, Sylos-Labini ritiene che la struttura sociale si possa interpretare con la
suddivisione delle classi sociali in tre gruppi, Il primo è costituito dalla borghesia vera e propria:
grandi proprietari di fondi rustici e urbani (che percepiscono le rendite); imprenditori e alti dirigenti
di società  per azioni (i cui redditi sono un misto di profitti e di redditi misti, con prevalenza dei
profitti. Il secondo è costituito dalla piccola borghesia: a) quella impiegatizia (stipendi); quella
relativamente autonoma: coltivatori diretti, artigiani, piccoli professionisti, commercianti (redditi
misti); c) la piccola borghesia, costituita da categorie particolari, come i militari e i religiosi
(stipendi). La terza è quella che si può mettere in corrispondenza con il proletariato. Sylos ritiene
opportuno distinguere due tipi; a) la classe operaia e b) il sottoproletariato” La struttura sociale non
è il riflesso dello sviluppo tecnologico che interessa essenzialmente i metodi di produzione: è il
risultato, anche e soprattutto, dell’evoluzione del sistema socio-culturale e di quello politicoistituzionale.
Il fenomeno rilevante per la comprensione della evoluzione globale è “il fortissimo aumento
della piccola borghesia impiegatizia e commerciale: da meno di un milione su 16 milioni di
occupati al principio del secolo ad oltre 5 milioni su 19 milioni di occupati.”, in condizione di
relativa stabilità  tra le altre classi.
A determinare questa trasformazione patologicamente rapida sono stati – indica Sylos Labini –
tre fattori principali: lo sviluppo dimensionale e quindi la burocratizzazione di molte imprese
private che, venutesi a trovare in difficoltà, sono state assorbite dalla Pubblica Amministrazione; la
creazione e l’allargamento di numerosi uffici preposti alla distribuzione dei finanziamenti pubblici;
l’inserimento clientelare nella burocrazia centrale o locale di un certo numero di diplomati o
laureati. Credo che, se si considerano i mutamenti più recenti si possano indicare, come aspetti
dell’evoluzione che hanno favorito la formazione dei nuovi ceti medi, anche lo sviluppo di nuovi
servizi legati alle nuove attività  di promozione delle vendite: il rilievo maggiore è di quelle attività 
che sono collegate con i nuovi sistemi di comunicazione.
Questa trasformazione non ha portato a una nuova classe, distinta da quelle classi che di Marx,
ma con simili caratteristiche socio culturali, tali cioè da implicare atteggiamenti ben prevedibili
nell’evoluzione dell’economia, come immaginava Marx, per le sue classi. Infatti, Osserva Sylos
Labini, “La piccola borghesia – i ceti medi – non sono propriamente una classe: si può parlare al
massimo di una quasi solidarietà  di fondo (per ragioni economiche e culturali), ma che è suddivisa
in tanti e tanti gruppi, con interessi economici diversi e spesso contrastanti, con diversi tipi di
cultura e con diversi livelli di quella che si potrebbe chiamare moralità  civile.”
Il sistema viene così a caratterizzarsi per la progressiva perdita dei valori civili e sociali. Anche il
ruolo della borghesia è mutato. Perché correre i rischi che comportano le innovazioni quando per i
cambiamenti che sono avvenuti nel sistema politico si può contare su rendite certe? Quanto alla
solidarietà  nel mondo del lavoro, basta riflettere sulla difesa dei redditi dei lavoratori anziani con
modalità  che riducono le possibilità  di impiego dei giovani. Anche nel passato ritardare l’entrata nel
mondo del lavoro era un evento quanto mai sgradevole; ora, per la rapidità  dei mutamenti nelle
mansioni che i giovani sono in grado di apprendere più rapidamente e più efficacemente, entrare nel
mondo del lavoro dopo i trent’anni può significare aver perduto le prospettive di crescita e di
carriera necessarie per motivare ogni lavoratore. L’efficacia dello sciopero come arma di difesa è
ben diverso da una categoria all’altra: è massima per i controllori di volo, è nulla per gli
extracomunitari specie se non hanno il permesso di soggiorno.
Cambia la società  e il mondo della politica. Come fa notare Paolo Sylos Labini dai diversi
interessi dei ceti medi può risultare una esacerbata conflittualità  sociale che, in certe situazioni, può
comportare il rischio di guerre civili; per tenerli in armonia può rendersi necessaria
un’organizzazione burocratica ipertrofica; comunque si può verificare una espansione incontrollata
della spesa pubblica suscettibile di mettere in pericolo l’efficienza minima che è necessaria per
mantenere la nostra posizione nel mondo. Diventa più difficile combattere l’evasione fiscale.
Bisogna riprendere il tema degli ostacoli alla concorrenza non con riferimento a grandi imprese o a
vari tipi di imprese. Prodi ha colto tutta la rilevanza politica ed economica di questa evoluzione.
Ma vi è anche un altro rischio. Proprio per l’eterogeneità  dei ceti medi e la mancanza di ‘ideali’
politici essi possono essere la ‘materia prima’ con cui costruire regimi dittatoriali. A Berlusconi, è
bastato l’annuncio che avrebbe eliminato l’Ice sulle case per rimontare lo svantaggio che i sondaggi
elettorali attribuivano alla Casa della libertà.
Lo strumento più diffuso per vincere le elezioni nel Sud di cui dispone un candidato (spesso il
solo) è assicurare posti nel settore pubblico a coloro che sono in grado di procurargli voti. Per
questo uno dei ministeri più ambiti era quello delle Poste. E’ cosi che nel Mezzogiorno si favorisce
le posizioni della conservazione e del clientelismo, “che diventa mafia quando assume connotati
criminali”.
Vi è però anche una relazione sinergica tra espansione dei ceti medi ed evoluzione
dell’economia. La rivoluzione consumistica è stata favorita dall’evoluzione dell’economia e dalle
nuove vie che si aprivano allo sviluppo tecnologico. La produzione dei nuovi beni di consumo ha
reso necessario uno sviluppo di nuovi servizi che sono offerti da quei lavoratori autonomi in grado
di allargare il mercato potenziale dei nuovi servizi.
Una riflessione finale
Quando si parla di Sylos Labini non si può separare lo studioso dal politico. Uso questo termine
non nel senso, inquinato dall’evoluzione del sistema politico, con cui viene usato. Nel senso di
persona consapevole di vivere in una società  che non considera come realtà  esterna, di una persona
che non lascia la società  alle cure del Leviatano che Hobbes ha inventato come il “Dio mortale, al
quale noi dobbiamo, sotto il Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa”, di persona che si
identifica con la società, non per annullare se stesso, ma per rapportare se stesso ad altri che può
considerare alla pari.
La concezione liberale non è di ostacolo alla percezione di una società  che contrappone potere ad
emarginazione. Non implica la concezione che la libertà  di commercio deve essere assicurata nelle
modalità  possibili nei mercati che si sono creato. Hayek, che è stato tra i miei maestri, usava
sottolineare la diversità  tra liberismo e liberalismo. Sylos Labini si riconosceva nella posizione di
Salvemini, come ricorda Michele Salvati nel bellissimo articolo che ha scritto per il Corriere della
Sera che dava l’annuncio della morte del comune amico. Salvemini dopo la grande guerra, eletto al
parlamento nelle liste di Rinnovamento, aspirava a fondare un nuovo partito, insieme
meridionalista, socialista e liberale: socialista nei fini di giustizia, liberale nel metodo. Sono le
posizioni dei fratelli Rosselli e di Gobetti.
Sylos non aveva nulla a che fare né con i liberali conservatori, né con i socialisti preoccupati di
acquisire e gestire, non importa con chi, il potere. Anche se siamo partiti da realtà  culturali e sociali
diversi, eravamo entrambi laici. La politica non può sposarsi con una fede religiosa. Né può
risultare da un mero esame razionalistico della realtà  storica in cui ci troviamo inseriti, né
dall’applicazione di specifiche scienze allo studio della realtà  sociale.
Che cosa sia l’impegno politico al quale gli economisti non possono, non debbono, sottrarsi, lo
ha detto con particolare chiarezza ed efficacia Paolo, nella prefazione alla sua opera sulle classi
sociali: L’economista, non diversamente dal sociologo, studia la società  della quale fa parte: egli
non è estraneo all’oggetto del suo studio nel senso particolare in cui si può affermare che lo sia il
cultore di scienze naturali. […] Se lo studioso non può sperare di essere rigorosamente obiettivo (ciò
che è impossibile), può e deve tuttavia sforzarsi di essere intellettualmente onesto, ossia può e deve
cercare di vedere tutti gli aspetti di un determinato problema, anche gli aspetti per lui sgradevoli, e
non solo quelli che sono conformi alla sua ideologia o utili per la sua parte politica.
Non posso non associarmi all’invito di Antonio Lettieri: Gli economisti che ne furono allievi o
colleghi e lo apprezzarono dovrebbero raccoglierne questo lascito, oggi più importante e necessario
che mai. Prendere posizione. Dare voce alla critica più rigorosa e intransigente senza reticenze, e
senza temere l’accusa di mescolare scienza e politica. Combattere la pervasività  del pensiero unico
incessantemente alimentato dalle tecnocrazie delle potenti istituzioni finanziarie internazionali,
senza per questo rinunciare al rischio di indicare le linee, coerenti e chiare, delle possibili
alternative.

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