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Un articolo di Antonio Maglie sul blog della Fondazione Nenni

Paolo Leon è stato un grande economista. Ma è stato soprattutto un uomo di straordinaria onestà  intellettuale e coerenza. Politica e scientifica, keynesiano senza ripensamenti nonostante i tempi tristi del “pensiero unico liberista”, dei vertici di Davos e dei think tank onnipresenti e schierati con i poteri finanziari forti. Socialista, legato a Ricardo Lombardi, preferiva lo studio della realtà  alla ricerca di visibilità. Ieri sera, Leon, nato a Venezia il 28 aprile del 1935, è scomparso lasciando un vuoto enorme in quell’ambiente universitario che ancora crede che questo mondo così squilibrato dal punto di vista della distribuzione della ricchezza si possa ancora riequilibrare. Lui a quel riequilibrio ci ha creduto, sino alla fine, sottolineando i limiti di un sistema impazzito.

Legato a Federico Caffè con il quale partecipò alla fondazione dell’università  RomaTre, in una intervista resa all’Associazione Sylos Labini sottolineava le manchevolezze della moneta unica e le contraddizioni della Bce. Spiegava: “La moneta unica, che doveva essere l’elemento che ci proteggeva da questa involuzione, non lo è perché non è una moneta unica, è una moneta ‘tedesca’ e cioè riflette più gli interessi nazionalistici tedeschi che non quelli europeisti. E il fatto che abbiamo una Banca Centrale Europea non implica nulla perché è una Banca Centrale che non ha di fronte a sé il ministro dell’economia europeo. Un tempo le banche centrali finanziavano i disavanzi pubblici con l’emissione di moneta: e quindi gli Stati non si indebitavano sul mercato, o si indebitavano di meno. Naturalmente la Banca Centrale ed il Governo erano in conflitto per determinare quanta emissione di moneta e quindi quanto deficit poter coprire. Lì si faceva politica. Tutto questo è sparito e adesso le banche centrali, compresa quella europea, non emettono più moneta. Adesso la BCE ci compra un po’ di titoli di stato e nel farlo emette moneta, però poi la sterilizza subito perché vende altri titoli di stato in compensazione di quelli che ha comprato”.

Ma spiegava con termini semplici anche la trasformazione di un sistema bancario travolto dalla crisi e che offre sempre meno garanzie ai risparmiatori. Raccontava così quel che era avvenuto sin da prima del fallimento di Lehman Brothers: “Quello che è anche cambiato fortemente, ma di nuovo è l’indicatore del cambiamento culturale, è il sistema bancario. Dalla fine della recessione del ’29 fino all’inizio degli Anni Ottanta avevamo un sistema bancario diviso in due: c’era un sistema di credito ordinario, che era poco più di un semplice servizio pubblico, faceva prestiti a breve termine e si finanziava con i depositi, e anzi vigeva una regola, che i banchieri conoscono ma i cittadini no, ovvero che gli impieghi che fanno le banche danno luogo ai depositi dei risparmiatori. Non sono i depositi che consentono gli impieghi, sono gli impieghi che generano i depositi, perché se la banca dà  i soldi ad un tizio prima o poi quei soldi entrano in qualche altra banca; se sei un sistema bancario, si fa il “clearing” tra le banche (ovvero si fanno le compensazioni tra le banche) e ogni volta che una banca fa un impiego aumentano i depositi nel sistema; poi interviene la banca centrale nel caso in cui qualche banca si trovi in difficoltà. Dalla metà  degli Anni Ottanta non è più questo il sistema. Non esiste più un sistema bancario, quindi se la banca dà  un prestito non può attendersi di avere corrispondentemente dei depositi perché è sola, non c’è più clearing, né alcuna compensazione tra banche. Queste, allora, si devono dotare di capitale, in modo che vi sia una qualche corrispondenza tra capitale e prestiti, altrimenti falliscono. E’ una conseguenza elementare delle riforme conservatrici dell’ultimo ventennio, ma non è stato spiegato che proprio questa innovazione nello stato patrimoniale delle banche ha determinato una situazione tragica dopo il crollo del 2008: in quel momento i capitali delle banche si sono deprezzati da un giorno all’altro del 50% e quindi non potevano più far prestiti. Gli Stati sono intervenuti, hanno rifinanziato le banche, queste si sono ricapitalizzate e molte hanno comprato titoli di stato (sembravano più sicuri), e in quel modo si sono costituite un capitale, ma non hanno ricominciato a fare prestiti, perché gli stessi titoli di stato sono divenuti oggetto di speculazione e portatori di forti rischi”.

Della storia economica di questo Paese (e non solo di questo Paese) è stato un protagonista discreto e sereno: dalla Banca Mondiale all’università  (Bologna, RomaTre), ai ministeri (consulente per quello del Bilancio, del lavoro e dell’ambiente e della Cassa per il Mezzogiorno). Attivissimo i diversi centri studi, da Arpes a Cles.

E Giorgio Benvenuto, presidente di questa Fondazione, all’epoca segretario generale della Uil, lo ricorda con commozione: “Era la metà  degli anni Settanta quando grazie a Paolo, a Federico Mancini, a Pietro Craveri, a Paolo Garonna, a Giuseppe Pignatelli e ad Aldo Canale, demmo vita al Crel”. Leon il Centro Ricerche Economia e Lavoro lo ha diretto per lungo tempo. E poi l’impegno nel Psi: “Nel Partito Socialista bisognava stare in correnti ed io facevo parte della corrente di Lombardi ma frequentai Basso e De Martino. Lì imparai come si scrive sui giornali e “come si sta in pubblico”. Una cosa è la lezione, un’altra cosa è parlare in pubblico; è necessario saper intuire quello che sta immaginando il pubblico mentre parli ed è una cosa che si apprende solo in politica o a teatro”.

Poi arrivò il Midas: “Mi staccai dalla corrente lombardiana perché votai contro Craxi; fui poi espulso dallo stesso Craxi nel 1981 perché avevo capito, e con altri avevo denunciato, che esisteva il “conto protezione”. Lo ricorda Benvenuto, lo saluta la Cgil sottolineando “l’argomentatore lucido e instancabile della necessità  di un ruolo pubblico nell’economia”, in contrapposizione ai liberisti “duri e puri” che hanno contribuito a vanificare e smantellare quel ruolo in ossequio alla supremazia di un mercato dalle regole non troppo coerenti e sicuramente pochissimo eque.

 

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