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Da almeno due anni avevo notato alcune rassomiglianze fra la situazione che si era determinata in America negli anni Venti del secolo scorso, un periodo che sboccò nella più grave depressione nella storia del capitalismo, e la situazione che si andava delineando oggi in America. Le principali rassomiglianze consistevano nella rilevanza di certe innovazioni (elettricità e automobili negli anni Venti, elettronica, informatica e telecomunicazioni nel nostro tempo); nella formazione e nella diffusione di profitti alti e crescenti, dapprima nelle industrie nuove e poi via via nelle altre; nella speculazione di borsa, alimentata non solo dai profitti realizzati, ma anche dalle aspettative di profitti crescenti; nell’indebitamento a breve e a lungo termine legato alle occasioni, per le imprese, di investire in impianti e di acquisire nuove imprese e, per le famiglie, in beni durevoli di consumo, come gli immobili. Fenomeni simili potevano essere notati anche in Giappone, la cui economia, fino a pochi anni fa, era la più dinamica del mondo.
Per interpretare il processo di sviluppo ciclico, tre fenomeni meritavano e meritano particolare attenzione, oltre le grandi innovazioni: la distribuzione del reddito, le forme di mercato e la sostenibilità dei debiti. Il motore dello sviluppo ciclico è costituito dalle innovazioni: più sono importanti, più sono diffuse le occasioni di investimento che offrono e più dura la fase di prosperità. Al tempo stesso, però, sono più vigorose le ondate speculative, più frequenti sono gli errori dei manager e più crescono i debiti, le cui dimensioni, cessata la prosperità, condizionano la durata della crisi.
2. L’aumento della diseguaglianza nella distribuzione del reddito negli anni Venti e negli anni Novanta del secolo scorso
Quando aumenta la disuguaglianza distributiva sorgono almeno due problemi: si indebolisce la domanda di beni di consumo e vengono alimentate le operazioni speculative e i debiti contratti per finanziarle. Negli anni Venti del secolo scorso la quota di reddito che va al quintile dei redditieri più ricchi sale di sei punti: passa dal 48% nel 1923 al 54% nel 1929 (Sylos Labini 1984, p. 265). Dal 1992 al 2001 il potere d’acquisto del reddito mediano del quintile più basso ha perso 3,6 punti, mentre quello del quintile più alto è cresciuto di 0,7 punti: il divario è salito di 4,3 punti: non è poco (dati del Federal Reserve System cortesemente forniti allo scrivente dal Servizio Studi della Banca d’Italia).
La diseguaglianza cresce in modo sistematico o come effetto della politica fiscale o come conseguenza di grandi innovazioni che fanno crescere i profitti nelle nuove industrie e poi, via via, in tante altre industrie, le cui condizioni di produzione e di vendita sono modificate dalle nuove industrie e dai nuovi prodotti – si tratta di una sorta di economie dinamiche esterne -. Crescono, a ondate successive, i profitti e ciò provoca ondate speculative in borsa, che hanno l’epicentro proprio nelle innovazioni. I profitti, i guadagni provenienti dalle azioni e gli elevati compensi ai manager, specialmente ai “top manager”, alimentano anche ondate di acquisti di immobili e si formano due bolle speculative, una in borsa e l’altra nei mercati immobiliari. In America la prima si è sgonfiata due volte, la seconda finora solo una volta ha subìto un arresto. Il fatto è che, nell’era della globalizzazione, le ondate speculative si diffondono nell’intero mondo sviluppato, ma con asincronie; inoltre, gli interessi coinvolti sono così rilevanti che la banca centrale e le principali banche, che a volte partecipano alle speculazioni, attuano una politica di sostegno, che può durare a lungo, anche se non all’infinito. Per questi motivi le bolle speculative non si sgonfiano di colpo. La bolla speculativa di Wall Street esplose una prima volta alla fine del 2000 con effetti nettamente negativi sul potere d’acquisto complessivo delle famiglie. Si è poi sgonfiata una seconda volta ma, in dimensioni ridotte, vi è ancora.
3. I compensi dei dirigenti delle grandi imprese oligopolistiche. L’andamento dei prezzi
Negli ultimi anni la disuguaglianza distributiva negli Stati Uniti è stata accentuata da un fattore particolare: i lauti compensi che si auto-assegnano i dirigenti di varie grandi imprese oligopolistiche o nella forma di stipendi assai elevati o di premi o di azioni gratuite; questi dirigenti in diversi casi si sono avvalsi della complicità di grandi società di controllo, che hanno acconsentito a truccare i bilanci occultando le perdite, imputabili, in primo luogo, all’avversa congiuntura e poi a quei lauti compensi, che negli ultimi anni non erano più sostenuti dai profitti. In ogni modo – scrivevo nella mia monografia sull’oligopolio (1956; 1964, pp. 150-51) – i profitti superiori alla norma delle grandi imprese oligopolistiche in parte almeno vengono trasformati in «stipendi molto elevati che i dirigenti assegnano a se stessi. In un mondo dominato da grossi complessi oligopolistici questi stipendi non servono semplicemente a remunerare le prestazioni di uomini dotati di capacità particolari o addirittura eccezionali e tanto meno sono correlati con una problematica “produttività marginale” di tali prestazioni; questi stipendi, in realtà, incorporano una parte degli extraprofitti di oligopolio e servono a qualificare lo “status” dei
dirigenti: divengono quindi quasi una “necessità “ del sistema. Se tutte le grandi società per azioni seguono una condotta, sotto questo aspetto, collusiva, la fetta degli extra-profitti oligopolistici che viene ad avere una tale destinazione può divenire grande».
Nella congiuntura sfavorevole i profitti in generale e quelli di molte grandi imprese in particolare diminuiscono e si diffondono le perdite. Con la bassa marea affiorano gli scogli e vengono più facilmente alla luce gli imbrogli. Ciò è successo in tutti i paesi industrializzati, ma in particolare in America, dove nell’area delle grandi imprese quello che è stato chiamato il “museo degli orrori” si è arricchito di nuovi pezzi.
Da notare che la trasformazione di una parte dei profitti in compensi ai top manager, anche se non dà luogo a perdite, va a scapito delle riserve, che servono proprio quando vi è bufera (v. Appendice).
Le grandi imprese sono in grado di introdurre innovazioni di ogni genere, piccole e grandi, ed entro certi limiti di regolare i prezzi: quando la domanda non tira abbastanza, gli aumenti di produttività possono eccedere l’aumento della domanda senza riduzione di prezzi,
ciò che comporta, anche in una congiuntura favorevole, una riduzione del numero degli occupati; il risultato è che nelle grandi imprese l’occupazione diviene più flessibile e i prezzi più rigidi verso il basso. Di norma le grandi imprese operano in regime di oligopolio concentrato o di oligopolio misto. La forma di mercato, in cui coesistono concentrazione e differenziazione, prevale nel settore del credito e nella grande distribuzione commerciale, mentre nel piccolo commercio e nelle industrie dei beni di consumo non durevole prevale l’oligopolio differenziato. In tutti e tre i casi cresce la rigidità verso il basso dei prezzi, con l’avvertenza che nella piccola distribuzione commerciale l’efficienza cresce a un saggio assai lento; perciò, nei paesi in cui il piccolo commercio prevale, i margini commerciali e i prezzi al consumo tendono a crescere più che negli altri paesi. Il costo della vita include anche altri prezzi, che seguono una logica diversa; al suo aumento contribuiscono anche i prezzi dei servizi e le tariffe pubbliche. La concorrenza intesa nel senso dei classici – entrata libera – prevale nei mercati delle materie prime agrarie e, in molti casi, di quelle minerarie; è qui che i prezzi mostrano un’elevata flessibilità sia verso il basso sia verso l’alto, pur incontrando limiti che, al tempo della grande depressione del secolo scorso, non sussistevano, come quelli imputabili al sostegno pubblico dei prezzi delle materie prime agricole, che è stato introdotto prima in America e poi in altri paesi, e quelli dipendenti da nuove forme di cartelli fra produttori di materie prime non agricole.
Vediamo meglio. La prima guerra mondiale aveva accelerato i mutamenti strutturali dell’industria, già in atto da tempo, e le grandi imprese oligopolistiche, che fino al principio del secolo erano l’eccezione, in diverse industrie diventano la regola. Inoltre, con la grande diffusione dei giornali e della radio, ricevette un impulso enorme la pubblicità, che favorì la crescita della differenziazione di prodotti e di servizi. Nell’industria e nel commercio oramai i prezzi dipendono dalle variazioni dei costi e non della domanda (Sylos Labini 1981). Negli anni Trenta la flessione dei prezzi alla produzione e al consumo (25%) dipendeva dalla flessione del costo del lavoro (20%) e dalla caduta dei prezzi delle materie prime (45%). Oggi nella congiuntura avversa i prezzi delle materie prime diminuiscono ma limitatamente – molto meno che negli anni Trenta per le ragioni accennate -, mentre il costo nominale del lavoro non diminuisce quasi affatto – per la presenza dei sindacati e soprattutto per l’accresciuta differenziazione dei servizi dei lavoratori.
Dobbiamo dunque considerare i prezzi di tre categorie di beni: prodotti finiti industriali, beni al consumo e materie prime agricole e minerarie, con l’avvertenza che il prezzo del petrolio, che rappresenta la più importante fonte di energia, subisce l’influenza di un particolare cartello, che è condizionato dalla politica oltre che dal mercato e che per questo registra sbalzi imprevedibili. In tali condizioni, mentre può aver luogo una deflazione intesa come riduzione della domanda, ben difficilmente si verifica una defla zione nel senso di una caduta dei prezzi. Possono flettere limitatamente i prezzi alla produzione, com’è accaduto in America nel 2002 (-1,4%); i prezzi delle materie prime sono diminuiti del 6%. Il prezzo del petrolio è oscillato e i prezzi al consumo sono aumentati, sia pure di poco (1,6%); ma nelle condizioni odierne una caduta vera e propria dei prezzi al consumo è altamente improbabile. Un problema a sé è quello delle case, i cui prezzi, che in certi periodi sono dominati da operazioni speculative, possono cadere repentinamente: oggi molti osservatori seguono con attenzione l’andamento dei mercati immobilia-i nei paesi sviluppati anche per gli effetti collaterali che avrebbe un crollo dei prezzi delle case.
4. I debiti
Con riferimento all’America sono da considerare quattro tipi di debiti: debito pubblico, debito delle imprese, debito delle famiglie, debito
estero; è poi fondamentale la distinzione fra debiti a breve e a lungo termine, che quando diventano difficili da ripagare vengono chiamati
immobilizzi. In America i debiti privati e il debito estero hanno raggiunto livelli patologici, mentre il debito pubblico solo da poco susci-
ta preoccupazioni. Il problema fondamentale dell’economia americana sta proprio nei debiti, che oggi hanno assunto ampie dimensioni. E’ il risultato di vari fattori, economici – fra cui la politica liberale della banca centrale e gli abusi di diverse grandi imprese – e non economici – come la guerra in Iraq e l’occupazione di quel paese.
Quello dei debiti, durante la grande depressione degli anni Trenta, venne considerato come un problema di primaria importanza da diversi grandi economisti, fra cui spiccano i nomi di Irving Fisher e Luigi Einaudi. Il problema diventa assai grave se i prezzi diminuisco-
no notevolmente, come allora accadeva, giacché quella diminuzione ne fa aumentare il peso reale. Oggi i prezzi non calano, ma il proble-
ma dei debiti si pone anche con prezzi stabili. Già al principio degli anni Ottanta Hyman Minsky (1982) aveva elaborato in modo sistematico una teoria dell’instabilità finanziaria fondata sull’indebitamento. Oggi però del problema dei debiti si parla assai poco; per quanto ne so, a discuterlo in modo sistematico siamo stati sei economisti: l’inglese Wynne Godley, gli americani James Galbraith e Paul Krugman; da noi, Luigi Pasinetti, Pierluigi Ciocca e io.
Occorre ricordare anche due italiani, Giacomo Vaciago, che nel 1993 discusse le relazioni fra debito pubblico e debito privato, e Ugo Sacchetti, che nel 1999 analizzò il problema del debito delle famiglie e quello del debito ester degli USA
Nel 1934 Luigi Einaudi nella Riforma sociale (p. 13), da lui diretta, cominciava così un suo articolo intitolato “Debiti”: «Non riesco a prendere sul serio chi si lamenta o parla di crisi e non discorre di debiti». Sono d’accordo, non solo se si fa riferimento al tempo di Einaudi ma anche se ci riferiamo al nostro tempo. Godley ha esaminato con grande attenzione l’andamento in America dei debiti privati – famiglie e imprese – e del debito estero, specialmente in un articolo scritto con Alex Izurieta e apparso nel fascicolo del luglio 2001 del Levy Economics Institute. L’analisi di Godley si ricollega a quella di Minsky, che nei programmi del Levy Institute ha svolto un ruolo fondamentale.
5. I debiti a breve e a lungo termine
Il capitalismo moderno si fonda sui debiti – più precisamente il processo di accumulazione non è neppure concepibile senza debiti, giacché l’autofinanziamento nel complesso è insufficiente e non può riguardare tutte le imprese. D’altra parte le imprese che ottengono profitti in eccesso ai loro bisogni di autofinanziamento possono darli in prestito ad altre imprese, o direttamente o attraverso le banche, le
quali, dal canto loro, possono far prestiti trasformando titoli di credito in mezzi monetari in misura che va ben oltre i prestiti ricevuti dai
clienti, imprese o famiglie. Il debito, strumento insostituibile dell’accumulazione, deve essere poi restituito o rinnovato o magari allargato: ciò non crea problemi fin quando l’economia cresce; i problemi sorgono quando l’economia smette di progredire o addirittura regredisce. I debiti debbono pur sempre essere pagati; con la congiuntura negativa la restituzione dei prestiti e il pagamento degli interessi diventano problemi seri: un numero crescente di imprese e di famiglie contrae nuovi prestiti solo per pagare i vecchi. Così, mentre nella congiuntura favorevole i debiti si traducono in spese e quindi alimentano la domanda effettiva, di beni di investimento o di beni di consumo, nella congiuntura sfavorevole i debiti che vengono contratti per pagare quelli che scadono comportano una riduzione della domanda effettiva, ciò che alimenta una spirale negativa. E’ qui che trae origine la spinta deflazionistica, di cui oggi molto si parla, e che nelle condizioni odierne si traduce in riduzione della domanda più che in riduzione dei prezzi.
A questo punto diviene rilevante la distinzione fra debiti a breve e debiti a lungo termine. Come esempio importante di una crisi che
ha al centro debiti a breve possiamo considerare un crollo di borsa che segue un’ondata speculativa; compare allora una carenza di liquidità da collegare, da un lato, alla massa delle cambiali portate allo sconto per coprirsi e, dall’altro lato, alle banconote emesse dalla banca centrale. Ora, una banca centrale retta con intelligenza e larghezza di vedute inietterà nel sistema tutta la liquidità necessaria e ciò impedirà alla crisi di oltrepassare i limiti della finanza per entrare nell’economia reale.
Fu questa la politica adottata con coraggio e rapidità nell’autunno del 1987 da Alan Greenspan: la crisi finanziaria fu superata in meno di tre mesi senza degenerare in una crisi reale. I problemi odierni sono gravi poiché l’indebitamento a medio e lungo termine ha assunto un peso rilevante. In America le famiglie si sono indebitate a lungo termine principalmente per acquistare immobili, le imprese per acquistare macchine e attrezzature e per acquistare altre imprese: spesso tali acquisti danno luogo a immobilizzi. Fornendo come garanzie gli immobili, le famiglie possono poi ottenere dalle banche prestiti a interessi più bassi di quelli che debbono pagare senza tali garanzie, ciò che consente loro di acquistare beni di consumo durevole che con il loro reddito non sarebbero in grado di acquistare. In generale, negli Stati Uniti la crescita del debito delle famiglie è stata assecondata dalle politiche liberali del credito ed è stata favori ta dal tasso di risparmio che, come si sa, in quel paese è molto basso.
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