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fuaRiportiamo, di seguito, ampi stralci di un’intervista di Roberto Petrini all’economista Giorgio Fuà, apparsa nel 2000. Fuà  è stato uno dei più grandi economisti italiani del secondo dopoguerra; ha lavorato per molti anni con Adriano Olivetti, Enrico Mattei e il premio Nobel Gunnar Myrdal; nel 1980 ha curato il rapporto Ocse sui problemi dei paesi europei a sviluppo tardivo (quelli oggi noti con il poco rispettoso acronimo PIIGS). Ha fatto parte, con Paolo Sylos Labini ed altri economisti,  della commissione per la programmazione economica in Italia, voluta dal primo centrosinistra (1962). Ha fondato, nel 1959, la Facoltà  di Economia di Ancona in cui ha insegnato fino a poco prima della morte, avvenuta all’inizio del nuovo secolo. Alcune sue riflessioni contenute in questo dialogo ci appaiono di sconcertante attualità: la necessità  di diffondere tra i giovani una mentalità  lavorativa e imprenditoriale  che recuperi la dimensione creativa e personale del lavoro, contrapposta ad una visione del lavoro come male spiacevole ma “necessario” per produrre e acquistare sempre più merci; l’urgenza di adottare forme di partecipazione dei lavoratori alla gestione d’impresa e l’importanza di superare, almeno nelle società  affluenti, l’ossessione del Prodotto Interno Lordo (PIL) come unico indicatore di “benessere” da massimizzare. (F.S).

Professor Fuà, cominciamo dall’abc: chi è questo strano personaggio che passa sotto il nome di imprenditore?

I vecchi manuali di economia dicevano: è colui che combina i fattori produttivi ( lavoro, capitale e terra). E’ una definizione poco suggestiva ed è molto insoddisfacente anche l’indicazione del criterio che guiderebbe l’imprenditore e cioè quello della massimizzazione del profitto.

Se il profitto non è sufficiente, come comunemente si ritiene, per qualificare e definire la figura dell’imprenditore, quali sono, o dovrebbero essere, i suoi scopi? Qualcuno potrebbe ricordare che l’imprenditore crea posti di lavoro e dedurne che si tratta di un compito già  sufficiente. Non le pare?

Non occorre soltanto un imprenditore che crei posti di lavoro ma occorre un imprenditore che coinvolga i dipendenti in una avventura interessante. Che dia un senso al loro lavoro. Ricordo una frase di Adriano Olivetti, il quale si chiedeva: può l’impresa darsi uno scopo? La risposta implicita era sì. “Bisogna dare consapevolezza di fini al lavoro“ diceva Adriano Olivetti. Ma ciò implica, aggiungeva, l’aver preventivamente risposto a una domanda che non esito a definire una delle domande fondamentali della mia vita, profondamente discriminante per la fede che presuppone e per gli impegni che implica. “Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’ indice dei profitti? 0 non vi è, al di là  del ritmo apparente, qualcosa di più affascinante, una trama ideale, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica?”

Quale scopo? Coinvolgere i dipendenti, lavorare con soddisfazione, fare genericamente del bene? Lei cita Olivetti e parla addirittura di avventura. Sono concetti difficili da accettare al giorno d’oggi. Non crede?

Io credo che il lavoro in genere deve essere gratificante e coinvolgente: non deve essere soltanto una pena volta allo scopo di guadagnare  e, successivamente, acquistare merci e goderne nel tempo libero. Per creare questa condizione ci vogliono imprenditori leader come Adriano Olivetti, Enrico Mattei o come alcuni imprenditori marchigiani che conosco. Purtroppo non tutti gli imprenditori hanno le caratteristiche del leader: c’è chi si limita a comporre una combinazione favorevole di fattori di produzione; c’è l’inventore, come Guglielmo Marconi o Henry Ford; c’è chi accumula potere e ricchezza e persegue una strategia di piazzamento di capitali anche senza produrre alcunché. E’ sbagliata l’idea di vedere il compito dell’imprenditore come quello di produrre merce e il compito del lavoro come un mezzo per riuscire a consumare altra merce. E’ sbagliata l’idea che la gente che lavora nell’impresa debba avere come fine quello di fare tristemente la propria attività  dentro l’impresa per guadagnare e potersi poi comprare altra merce di cui godrà  nel tempo libero. Insomma, la cosa più importante è fondare un gruppo di persone che faccia con convinzione il proprio lavoro. E’ la cosa più importante perché ormai di merce ne produciamo abbastanza e il problema non è quello di produrne di più ma di produrla con piacere, non con sofferenza.

Questa non sembra l’opinione più diffusa. Se si pone la questione ad un passante, ma anche a qualche capitano d’industria, risponderà  senz’altro: guadagnare, per consumare e godersi il tempo libero. Non è così?

Mica è giusto! Noi nel lavoro, e negli spostamenti ad esso connessi, passiamo la maggior parte della vita, almeno metà  del tempo durante il quale siamo svegli. E se questa parte della nostra vita occupata da quello che chiamiamo lavoro e che serve per guadagnare ciò che poi si “gode” nel tempo libero, è penosa, il godimento diventa assai discutibile. In una situazione come quella che abbiamo appena ipotizzato, la parte creativa di noi, quella che ci dà  maggiore soddisfazione, dispone di uno spazio sempre più limitato. Io continuo a sostenere che bisogna generare e produrre qualcosa che valga di per sé, che pensiamo che sia un bene e che ci piace. Tutti gli imprenditori che sono riusciti a creare una comunità  appassionata al lavoro, che sono amati da chi ha avuto la fortuna di lavorare con loro, pensano che il loro prodotto contribuisce anche se in piccola parte a rendere migliore il mondo.

Oggi si impone la grande corporation, la multinazionale. E’ pensabile e realistico creare un clima del genere in strutture grandi e impersonali per definizione?

Si può creare il clima di squadra anche nelle grandi multinazionali. Ricordo che alla Olivetti noi tutti ne eravamo fieri. L’idea che ci animava era semplice ma efficace: questa è un’impresa bella e facciamo un prodotto bello. Adriano si lamentava perché gli impiegati (in Italia ormai il 60 per cento dei lavoratori dipendenti lavora negli uffici) sono circondati da macchine e mobili brutti. Perché devono essere brutti? Il loro ambiente può essere gradevole. E Adriano Olivetti diceva: mi piace dare soddisfazione alla gente che lavora.

Va bene. L’impresa ideale è quella dove si lavora con godimento, si conta di migliorare il mondo, si mira a creare una squadra affiatata. Ma come si può raggiungere questo obiettivo?

Vuole delle “ricettine”? Ebbene, l’imprenditore deve pensare nel seguente modo: la gente che lavora con me la voglio migliorare, perché nel lavoro si passa gran parte della propria vita e il lavoro ci deve migliorare e non peggiorare. Insegniamo loro anche un po’ di filosofia e, se possiamo, facciamo loro apprezzare anche della musica buona. Facciamo vedere intorno a loro delle architetture belle: questo migliora e rende più civili coloro che lavorano con me. La prima regola è quella di amare il prodotto che si fa ed essere convinti che si tratta di una cosa buona. Se invece si dice: il prodotto mi serve solo per guadagnare e non importa se imbroglio il consumatore, come si può coinvolgere, appassionare, la gente?

Non vorrei costringerla, nel corso di una semplice conversazione, ad elaborazioni teoriche che comporterebbero un lavoro ben più ampio e meditato. Tuttavia, mi pare che al centro della sua critica al concetto di impresa ci sia l’obiettivo della massimizzazione del profitto. E’ così?

A me interessa proporre ai giovani un modello secondo il quale il lavoro è uno degli aspetti positivi della vita. Tra le fonti di soddisfazione della vita il consumo è secondario rispetto al lavoro. La creazione può dare molta più soddisfazione che la distrazione, divertirsi è distrarsi, cioè fare qualche cosa al di fuori di un’altra. Il lavoro può essere vissuto con passione e si dovrebbe anche cambiare nome al lavoro, se questo termine si associa ancora all’idea di “guadagnerai il pane con il sudore della tua fronte”.

Gli economisti hanno sempre sottolineato l’aspetto della fatica, anche perché semplificava il discorso. Il lavoro come mezzo e il consumo come risultato. Dunque: minimo mezzo, minimo lavoro, massimo consumo. Invece io, avendo visto intorno a me gli artigiani, i coltivatori, mio padre medico e tutta la famiglia appassionati al lavoro da cui non si volevano staccare un momento, credo che il lavoro possa essere la ragione e la passione di una vita e credo che non debba essere vissuto come una sofferenza.

E chi fa un lavoro faticoso?

Anche in campagna dove il lavoro era pesantissimo non si sarebbero tirati indietro, volevano farlo ancora anche da anziani.

E quello della catena di montaggio?

Una volta c’erano “Charlot” e “Tempi moderni”, oggi c’è il computer. Non cambia molto: forse il problema è di non continuare a chiamarlo lavoro, magari chiamiamolo attività.

C’è bisogno di una nuova etica del lavoro?

Stare in società  o in un gruppo per produrre qualche cosa mi pare un punto importante della vita. Ma le ripeto ci vuole, e ci vorrà  in eterno, un Mosè o qualcun altro che dica: “Ora vi mostro io come facciamo”. Io chiamo costui imprenditore. Ciò che mi colpisce di più è che la maggior parte dei miei studenti universitari non ha mai sentito o concepito l’idea di fare un lavoro indipendente. Arrivano all’università  e mi dicono che dopo laureati cercheranno “un posto”.

Riepiloghiamo: il profitto non deve essere l’obiettivo, il consumo non è il fine principale della vita, bisogna lavorare con godimento.  Il mercato, tuttavia, è spesso il luogo della competizione e della violenza. Si può sopravvivere sul mercato adottando questi criteri?

Perché no? Il mercato non è il luogo della violenza, è semplicemente quello della concorrenza. Non si può concorrere facendo cose buone? Non mi pare che ci sia un contrasto con l’idea di concorrenza. Il profitto non è un obiettivo, è semplicemente una delle condizioni perché una organizzazione di mercato o d’impresa possa vivere. Pensiamo al lavoro senza scopo di lucro: le organizzazioni di volontariato che hanno un ruolo crescente, le comunità  per i tossicodipendenti, la Croce Rossa ecc. La vita di queste aziende, che si risolve in parte fuori dal mercato, è simile a quella delle imprese commerciali. Anche in questo caso ci vuole il leader, come Muccioli che fondò San Patrignano, come il Filo d’Oro di Osimo creato da un prete straordinario.

Eppure professore, nel linguaggio comune parole come profitto, lavoro e reddito vengono intese come addendi di una somma che alla fine dà  come totale la crescita del benessere. Lei contesta questa impostazione?

E’ vero. Nell’ottica abituale degli economisti, il lavoro viene considerato per la sua capacità  di produrre merci (quindi di contribuire al prodotto nazionale, al PIL) e per quella di procurare al lavoratore un guadagno, che significa poi capacità  di acquistare merci.  Ma il lavoro ha anche un altro aspetto, in quanto può procurare a chi lo compie un senso di alienazione, pena, o, al contrario, un senso di soddisfazione. Ho scritto nel mio libro “Crescita economica. Le insidie delle cifre” (Il Mulino, 1993) che il lavoro può risultare più interessante se chi lo fa è posto nella condizione di sentirsi partecipe della gestione dei successi dell’operazione produttiva in cui viene impiegato, se ha modo di riconoscere nel prodotto una propria creazione. Oggi nei paesi ricchi è probabilmente più urgente studiare le vie per restituire interesse al lavoro, piuttosto che le vie per aumentare di qualche punto percentuale la quantità  della merce prodotta o il potere d’acquisto ottenuto come retribuzione per ora di lavoro erogata. Eppure noi economisti continuiamo a dedicare tanti studi alla produttività  e al salario, ma quasi nessuno alla soddisfazione del lavoratore. Dunque, aggiungo ora, dovremmo studiare più attentamente come su questa soddisfazione influiscano la forma giuridica, la dimensione e la modalità  di organizzazione dell’impresa. Dovremmo esplorare meglio la praticabilità  di un sistema di partecipazione dei lavoratori agli utili e alla gestione dell’impresa e gli eventuali vantaggi che esso offrirebbe non solo dal punto di vista del livello di occupazione, produzione e retribuzione (vantaggi già  indicati da economisti come Martin Weitzman), ma anche dal punto di vista dell’integrazione sociale e dell’autorealizzazione che si possono ottenere attraverso il lavoro.

E’ il solo modo di dirigere un’impresa?

Non sto dicendo che si può dirigere un’impresa soltanto così. Una organizzazione produttiva si può dirigere anche in altro modo, in questo caso tuttavia si paga un prezzo: chi ci lavora si sente estraneo. Spero che si possa insegnare ai giovani che non si fa l’imprenditore per fare più soldi possibile. E’ una comune avventura che ci appassiona tutti, se l’obiettivo ci piace. Non misureremo il nostro successo con quanto abbiamo guadagnato o con che rapidità  abbiamo vinto un concorso.

La scuola dovrebbe dedicare più attenzione al compito di far riflettere i giovani sull’importanza delle insoddisfazioni e delle soddisfazioni non valutabili in moneta che possono accompagnare il lavoro. La maggior parte dei miei studenti, interrogati su quali requisiti dovrebbe avere un lavoro per attrarli, rispondono in prima battuta che l’ideale è trovare un posto sicuro, che procuri il massimo di reddito e il minimo di preoccupazione possibile, e il massimo di tempo libero. E’ una risposta del tutto in linea con la mentalità  consumistica, propagata dai mezzi di comunicazione di massa, recepita e trasmessa dalle famiglie, e non contrastata dalla scuola. Apre una prospettiva squallidissima: prendendo questa via, i giovani finirebbero con lo svendere metà  del proprio tempo di vita in una routine tediosa per pagarsi qualche svago o lusso nella modesta quota di ore di veglia restante.

La scuola fa troppo poco per indirizzare l’interesse dei giovani verso lavori indipendenti e verso le attività  imprenditoriali. Andiamo verso un mondo in cui quasi tutti i giovani puntano sulla prospettiva che qualcuno dia loro un posto (nel senso di impiego), mentre scarseggiano quelli che si preparano a creare (inventare) un posto di lavoro almeno per sé e possibilmente anche per gli altri, perché a troppo pochi ne è stata suggerita l’idea. Ma affinché ci siano occasioni di lavoro occorre che il sistema economico funzioni, e per funzionare normalmente il sistema esige l’opera di imprese; è improbabile allora che la funzione di guidare un’impresa possa essere svolta in modo soddisfacente da soggetti impersonali. Occorre ancora una volta la persona dell’imprenditore.

C’è il rischio di un declino dello spirito imprenditoriale?

Certamente. Se scarseggiano nuove leve di imprenditori, chi fornirà  tutti i posti di lavoro desiderati? Lo Stato, altri enti, nuovi carrozzoni? Penso che il punto che sto toccando costituisca una seria minaccia al benessere collettivo, non dico del momento presente, ma degli anni che verranno. In una prospettiva di lungo termine, la carenza di capacità  imprenditoriali potrebbe rivelarsi uno degli aspetti più gravi del problema dell’occupazione (o della disoccupazione), che oggi è tornato al centro dell’attenzione generale.

da R.Petrini, Uomini e Leader, Considerazioni e ricordi di Giorgio Fuà,  Centro studi Piero Calamandrei, Jesi 2000.

(Post a cura di Federico Stoppa Ilconformista.it)

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