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crouchIntervista al sociologo Colin Crouch oggi al Salone dell’Editoria Sociale

NEL SUO ULTIMO LIBRO, MAKING CAPITALISM FIT FOR SOCIETY, APPENA USCITO IN  INGLESE PER POLITY PRESS E NON ANCORA TRADOTTO in italiano, il sociologo inglese Colin Crouch, professore emerito all’Università  di Warwick,  sottolinea con insistenza il bisogno che la socialdemocrazia diventi  «assertiva», che si faccia più audace, che esca dalla postura difensiva  degli ultimi anni, perché il suo compito rappresentare quanti nel  sistema capitalistico hanno meno potere è un «compito permanente, oggi  più attuale che mai».
Per farlo, sostiene l’autore di Postdemocrazia e de Il potere dei giganti (entrambi pubblicati da Laterza), la  socialdemocrazia dovrebbe adottare un «doppio passo», riconoscendo la  continuità  con la sua tradizione storica ma allo stesso tempo  rinnovandosi, così da rispondere alle esigenze e alle caratteristiche  della società  attuale, postindustriale. Stamane Colin Crouch parteciperà  alla quinta edizione del Salone dell’editoria sociale per parlare de  «La società  dei diseguali. Welfare, politica ed economia dentro la  grande crisi». Abbiamo approfittato della sua presenza a Roma per porgli alcune domande.
Professor Crouch, partiamo proprio dalla più difficile: che volto dovrebbe avere il nuovo progetto socialdemocratico?
«Sono tre le strade da seguire: in primo luogo, riconoscere sia i vantaggi  del mercato, sia i suoi limiti. Accettarne apertamente i vantaggi rende  più convincente la nostra insistenza sui seri problemi che provoca. La  definizione di tali problemi è il secondo aspetto: l’ingresso del  mercato in ogni ambito della nostra vita provoca delle vittime,  danneggia degli interessi, che non possono essere né protetti né  ricompensati dal mercato stesso. Per questo, servono interventi sia  dello stato sia di altri soggetti. Il compito specifico della  socialdemocrazia contemporanea è quello di distinguere tra questi  interessi, individuando quelli che vanno sostenuti non tutti lo sono e  unificando quelli che possono rendere la società  più equa (come i  problemi dell’ambiente e della precarietà  sul mercato del lavoro).  Infine, dobbiamo comprendere la natura dei nuovi ceti sociali  dell’economia post-industriale, che ancora non hanno trovato un’autonoma espressione politica. Il blairismo della cosiddetta “Terza via” aveva  ragione a pensare che il centrosinistra non potesse più essere  espressione della classe operaia industriale, ma aveva torto nel  dimenticare il radicamento in questi ceti sociali, la cui caratteristica è l’essere costituiti prevalentemente da donne. Questo vuol dire che,  così come nella società  industriale gli interessi di tutti venivano  definiti secondo una prospettiva maschile, nel nuovo progetto della  socialdemocrazia postindustriale tali interessi vanno definiti secondo  una prospettiva femminile».
Uno dei problemi della socialdemocrazia  rimane però la difficoltà  a comprendere chi rappresentare e come farlo.  Per evitare l’irrilevanza o l’ulteriore, progressivo ridimensionamento  della propria base sociale, ai partiti di sinistra e ai sindacati lei  suggerisce un rinnovamento nella forma organizzativa (meno  centralizzata) e nell’identità  politica (meno monolitica e ortodossa).  Come rinnovarsi senza perdersi?
«Si tratta di una sfida difficile. Le nuove generazioni non accettano più i vecchi modelli organizzativi (un  problema che riguarda anche le aziende). Cercano e inventano nuovi  modelli, meno formali. Il movimento socialdemocratico si è sviluppato  nel periodo del capitalismo e della politica delle grandi burocrazie, ma di fronte ai cambiamenti della società  sarebbe uno sbaglio se  mantenesse quelle caratteristiche. Inoltre, ai suoi esordi il movimento  operaio si è sviluppato in una società  dominata da forze antagoniste, di natura aristocratica, borghese, ecclesiale. E in molti Paesi ha cercato di costruire un vero e proprio mondo a sé, una diversa cultura. Si  trattava di una risposta difensiva, di una reazione a una situazione  ostile. Oggi una strategia isolazionistica sarebbe quasi impossibile,  oltre che inutile. Le idee del welfare state, dei diritti universali, di un certo livello di uguaglianza della cittadinanza, sono molto diffuse  nelle istituzioni, nei tribunali, nelle scuole, nelle università. In un  certo senso sono i neoliberisti a dover contrastare queste idee  dominanti, oggi. E’ un’occasione da non perdere. La perderemmo se il  movimento socialdemocratico si richiudesse in se stesso».
Nei suoi  libri «Il potere dei giganti» e «Making Capitalism Fit for Society», lei stesso però riconosce il grande paradosso del nostro tempo: il  neoliberismo è all’origine della crisi, dell’insicurezza sociale ed  economica di molti lavoratori, ma rimane l’ideologia politica dominante, mentre i socialdemocratici restano sulla difensiva. Perché?
«Il  problema principale è il potere. L’attuale capitale globale può  esercitare una potenza tremenda, in termini economici e politici. Come  può essere contestata una simile concentrazione di potere da una forza  politica che rappresenta la gente “normale”, senza grandi risorse e  senza un’idea chiara della propria identità  politica? In ogni caso,  benché potente in termini economici e politici, il neoliberismo non è  altrettanto forte quanto a consenso nei sentimenti popolari. I partiti  politici più o meno “puramente” neoliberali sono minoritari come in  Germania il Freie Democratische Partei, che dopo le ultime elezioni ha  perso i suoi seggi nel Bundestag. Per questo il neoliberismo ha sempre  bisogno di alleanze, sia con la democrazia cristiana sia con forze  particolari come il Tea Party negli Stati Uniti». Nonostante le forti  critiche che rivolge alle politiche di austerità, lei continua ad  attribuire all’Unione europea «il compito principale di costruire  alternative praticabili al neoliberismo dentro una cornice  capitalistica».
Cosa possiamo realisticamente aspettarci dall’Unione  europea? E come risponde a chi, anche a sinistra, è tentato dal ritorno  al nazionalismo economico e al protezionismo, come risposta alla crisi?
«Affrontare i problemi di natura globale con un ritorno alle politiche nazionali  sarebbe un progetto alla Don Chisciotte, oltre che un ritorno a un  passato irrecuperabile. Uno dei problemi dei nostri giorni è che abbiamo forze economiche globali e democrazie nazionali. Si tratta di una lotta impossibile. In un contesto globale, i singoli stati europei perfino la Germania sono soggetti più piccoli e deboli dei grandi attori del  futuro: gli Stati Uniti, la Cina, la Russia, gli altri Paesi Brics. Tra questi, nessun Paese vanta politiche sociali come quelle europee, le  quali, benché minacciate, continuano a offrire sistemi di welfare-state  avanzati e sindacati protagonisti della vita pubblica. Senza delle  istituzioni europee forti e democratiche tutto questo andrà  perso. So  bene che l’attuale Unione europea è nemica dei miei valori politici e  sociali, ma dobbiamo provare a cambiarla. Non vedo alternative. Di  certo, non è un’alternativa né il nazionalismo economico né il  protezionismo, che rimane una politica di destra, se non fascista, che  protegge solo i grandi imprenditori. A farne le spese sono la  maggioranza del popolo e le piccole imprese».
(di Giuliano Battiston l’Unità  2.11.13)
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