
Innocenzo Cipolletta in un intervento sul Lavoce.info del 02/10/2015 affronta una questione che dovrebbe indurre a riprendere una discussione in materia di politiche economiche per lo sviluppo. In questa occasione interessa intanto segnalare le conclusioni che vengono tratte da Cipolleta: ““¦.risulta totalmente invertita la relazione che qualcuno avanza, ossia che la crescita della produttività favorisce la crescita economica. E’ invece vero l’inverso, almeno nel breve termine: la crescita della produzione ( e quindi della domanda) favorisce la crescita della produttività. Questo non vuol dire che si debba rinunciare a politiche per l’aumento della produttività ( istruzione, innovazione, ricerca,in particolare ). Ma per aumentare reddito e occupazione, sono necessari anche politiche per la crescita della domanda e per l’assorbimento di maggiore occupazione.”. Nel suo intervento Cipolletta richiama una serie di questioni che richiederebbero una trattazione specifica e complessa, compreso tutto quanto sotteso con il richiamo al “breve termine”. Non è, comunque, casuale che queste osservazioni arrivino, dopo quasi due anni di governo, alle scadenze di una verifica delle politiche economiche, scadenze dettate dagli impegni assunti dal Governo stesso, nonché dalle affermazioni circa il superamento non solo della fase della recessione ma anche l’avvio, seppur faticoso, di un superamento del nostro declino.
La verifica di tali cambiamenti sembra essere, dunque, una prima necessaria operazione. A questi fini sposiamo l’impostazione di Cipolletta che traguarda gli andamenti di alcuni indicatori non limitandosi al caso nazionale ma confrontandoli con gli andamenti di quelli relativi a paesi che sono dei nostri necessari referenti, incominciando dalla Francia e dalla Germania per arrivare ai paesi compresi nell’Euro Zona. Occorre precisare che questi ampliamenti nell’analisi non rappresentano solo una maggiore informazione ma una operazione senza la quale quelle verifiche non sarebbero possibili: E’ necessario, infatti, precisare che in un mondo globalizzato e tra paesi interconnessi, non è sufficiente registrare una variazione del PIL in un paese superiore a quella che si verifica in un altro, per un motivo del tutto ovvio: se un paese parte da una situazione di sviluppo inferiore a quella di un altro è evidente che anche a parità di crescita percentuale del PIL pro capite, quel paese continuerà ad accrescere il suo divario e non potrà affermare di essere uscito da un declino. Ne consegue che non è nemmeno automatico che una maggiore crescita percentuale possa significare un effettivo superamento di un precedente divario negativo: se, ad esempio, partendo da un livello del reddito espresso da un valore del pil pro capite = 100, si verifica uno sviluppo del 10 %, dopo un anno quel Pil sarà pari al 110. Se, invece, si parte da un valore del Pil = 150 , con un valore dello sviluppo pari all’8 %, dopo un anno si avrà un Pil = 162 con un divario che da 50 punti sale a 52 punti.[1]
Queste precisazioni, piuttosto banali, sembrano necessarie in quanto nella pubblicistica quotidiana, anche quando espressa da posizioni “autorevoli”, non solo non trovano un riscontro ma non sono nemmeno considerate. Tuttavia è questo quello a cui occorre stare attenti quando si esamina l’andamento della crescita percentuale del nostro Pil a fronte di quello dell’Area Euro.
E’ possibile, a questo punto, raccogliere le informazioni sull’andamento della nostra economia incominciando dall’esame del Pil pro capite e, in particolare dal confronto di questo dato tra la Francia, la Germania, i paesi dell’UE 19 e il nostro Paese. I dati disponibili più recenti sono quelli relativi al Pil pro capite trimestrale che arrivano sino alla seconda metà del 2015. Come si nota (V. Grafici 1 ) a questa data non si verifica alcun miglioramento della posizione economica del nostro paese. Anzi un confronto con l’insieme dei paesi dell’UE 19 indica un aumento del divario pari a 200 euro in due anni a conferma del nostro declino (V. Grafico 2).
Un ulteriore esame condotto ai fini di verificare il possibile superamento di un fase di declino e/o l’avvio di un percorso comunque positivo del nostro paese, può essere svolto anche confrontando l’andamento di un indicatore della competitività quale il valore prodotto in un unità di tempo di lavoro, scegliendo come unità di tempo l’ora piuttosto che il giorno o, tanto meno, l’anno, per ovvi motivi di maggiore confrontabilità dei dati.
Fonte: Eurostat
Per questo indicatore è significativo sia il valore assoluto, sia la sua variazione nel tempo.
Per quanto riguarda il valore assoluto i dati disponibili sembrano confermare gli andamenti degli anni precedenti, durante i quali, come si nota dai dati del Grafico 3, si andava confermando quel sistema di accumulo del nostro ritardo economico, le cui origini possono farsi risalire alla metà degli anni ‘ottanta. Anche le variazioni più recenti di questo dato, disponibili sino alla metà del 2015, (V. Grafico 4) non sembrano offrire elementi per conclusioni diverse. Resta solo l’avvertenza secondo la quale è corretto disporre di un tempo sufficiente per poter apprezzare gli effetti di certi interventi. Questa cautela, tuttavia, al momento non può avvallare conclusioni diverse da quelle che indicano una permanenza dei fattori che stanno all’origine della nostra crisi.
E’ interessante, a questo punto, verificare l’andamento dei livelli occupazionali che, stante gli andamenti del PIl non dovrebbero indicare variazioni particolarmente positive. In realtà, come si evince dai dati riportati nel Grafico 5, dal primo trimestre del 2015 si manifesta una inversione della percentuale dei disoccupati. Un andamento positivo che segnala una qualche differenza con la media degli andamenti degli altri paesi dell’UE, Francia in particolare. Poiché questo segnale non trova ancora un riscontro negli andamenti dello sviluppo in termini di PIL, sembra ragionevole supporre delle relazioni con i particolari provvedimenti assunti dal Governo in materia di riduzione del costo del lavoro; relazioni che andranno, quindi, approfondite nel seguito,
poiché al momento non è possibile verificare se queste variazioni rappresentino o meno dei cambiamenti strutturali. L’entità e gli andamenti particolarmente negativi relativi ai dati della disoccupazione giovanile – V. Grafico 6 – non consentono aspettative confortanti.
Una ulteriore linea di verifica del superamento o meno di questa condizione di crisi – che, è bene ricordare, non può essere confusa con quella internazionale – chiama in causa l’andamento relativo delle nostre esportazioni manifatturiere. Gli andamenti di un indicatore in questo campo rappresentano un segnale molto importante anche con riferimento al potenziale di crescita del Paese.
Come si legge dal Grafico 7, all’interno di un andamento che evidenzia l’emersione dei paesi in via di sviluppo – come si evince dalla riduzione delle quote delle esportazioni dei paesi avanzati, paesi dell’Euro Area in particolare – le esportazioni del nostro Paese mostrano una maggiore debolezza sin da anni lontani e sino a periodi temporali molto recenti. V. Grafico 8. Anche in questo settore le verifiche dei numeri confermano che non ci sono inversioni di tendenze. Non possono essere estranei a questi nostri comportamenti gli storici deficit commerciali nel comparto dei prodotti ad alta tecnologia proprio in una fase storica dove i prodotti HT hanno occupato quote crescenti delle esportazioni internazionali. Il conseguente ripiegamento – anche nelle politiche industriali del Governo – verso una competitività di costo rappresenta una logica espressione di quel deficit strutturale. Questo sembra essere il senso anche della nota di Cipolletta là dove ci ricorda che se è vero che almeno nel breve termine “la crescita della produzione ( e quindi della domanda ) favorisce la crescita produttiva”¦questo non vuol dire che si debba rinunciare a politiche per l’aumento della produttività (istruzione, innovazione, ricerca, in particolare).”. Purtroppo queste politiche sono da sempre pressoché ignorate e, al massimo si traducono in incentivi finanziari, ovviamente ben accolti dalle imprese, ma non sono solo inefficaci come dimostrato da varie indagini compresi degli studi specifici condotti dalla Banca d’Italia e come sarebbe agevole dedurre se esistesse un capacità analitica sufficiente, ma anche “potenzialmente nocivi per l’attività imprenditoriale” guidata da un’ottica di breve periodo, come ci viene ricordato anche recentemente dalla Mazzucato nel suo libro su “Lo Stato innovatore”.
Università ed Enti pubblici di ricerca sono infatti gestiti in termini di “oneri pubblici” come tali da essere tendenzialmente utilizzati come sorgenti di “risparmi”per il Bilancio pubblico, anche attraverso gli automatismi della riduzione delle risorse finanziarie ed umane, con effetti circolari di disfunzioni interne sin troppo ovvie. L’esistenza di un Sistema Nazionale dell’Innovazione resta una visione sempre più mitica.
Anche i recenti documenti di DEF del governo confermano la scelta di una competitività di costi che, come tale, ci colloca tra i paesi in via di sviluppo in accordo con la politica Confindustriale di riduzione del costo e delle norme sul lavoro. Questa appare essere la traduzione delle indicazioni contenute nel DEF Aggiornato secondo le quali “Lo stimolo fiscale all’economia risulta sostenibile nel tempo anche perché accompagnato da riforme strutturali che stanno modificando alla radice la capacità competitiva del Paese: dall’assetto istituzionale”¦.”. In sostanza sembra di capire che negli ultimi vent’anni l’attuale struttura bicamerale ha condizionato le capacità competitiva del nostro Paese, mentre l’investimento privato nei suoi aspetti quali e quantitativi deve essere considerato come un fattore da incrementare e “cruciale per irrobustire la ripresa:” Si tratta, purtroppo di una posizione approssimata e, nello specifico, priva di qualunque fondamento.
In conclusione occorre ricordare come nel caso italiano si dovrebbero verificare due effetti benefici in materia di sviluppo: gli effetti dei provvedimenti del Governo e gli effetti, comuni anche agli altri paesi, dovuti alle migliori condizioni internazionali. Per ora, a metà del 2015, nessuna di queste due “cure” appare aver portato a un qualche esito positivo se non nel caso – importantissimo – della disoccupazione dove una diminuzione appare evidente. Poiché, tuttavia, i valori assoluti restano molto pesanti, se queste variazioni si dovessero assestare a questi livelli, verrebbe a mancare quello che a metà del 2015, appare essere l’unico indizio positivo, ancorché smentito dagli andamenti di ogni altro “segnale”.
Indizi che non compaiono nel caso degli andamenti delle variazioni del Pil, del Pil pro capite, della produttività del lavoro, dell’occupazione giovanile, della competizione industriale internazionale.
Anche altri indicatori dovrebbero comparire in una analisi quale quella proposta, incominciando da quelli di maggiore rilevo qualitativo, quali ad esempio quelli che indicano la distribuzione della ricchezza o gli andamenti dei livelli formativi. Il fatto stesso che i dati relativi a questi indicatori siano molto meno citati e anche molto meno diffusi, rappresenta una condizione che si autodefinisce.
Certamente i tempi trascorsi da quegli interventi di origine interna o internazionale, non sempre appaiono sufficienti per doverne riscontrare un qualche esito assestato, tuttavia ad oggi sono comprensibili le ombre pesanti che si proiettano, nel breve, medio e lungo periodo, sul sistema non solo economico e sociale, ma anche, ormai, civile e culturale del paese e, quindi, la necessità, espressa all’inizio, di avviare una riconsiderazione radicale delle nostre politiche economiche e sociali.
Le condizioni politiche per una operazione di questa natura sembravano inesistenti, ma forse se dopo il piano del Lavoro della CGIL, ora seguissero contributi vari ma sulla stessa questione di fondo, e cioè sul destini di questo Paese, forse qualche speranza si potrebbe aprire.
[1] Naturalmente questo divario è una funzione della differenza tra i valori assoluti dei PIL e dell’entità delle relative variazioni percentuali.
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