
Che cosa succederà se la crisi economica americana si aggrava? In economia non sono possibili previsioni vere e proprie, se non altro perché gl’ interventi dei centri decisionali – governi, banche centrali, istituzioni internazionali – possono modificare in modo significativo l’ evoluzione “spontanea”. è tuttavia possibile esprimere giudizi di probabilità intorno alle prospettive sulla base di diagnosi approfondite. Da oltre due anni il mio giudizio è pessimistico, come ho scritto in vari articoli, in una relazione dell’ aprile 2002 inclusa nel mio libro su Berlusconi e in un saggio che sta per uscire.
La mia analisi si fonda su significative analogie con la grande depressione del secolo scorso e su tre punti: le innovazioni, i mutamenti nelle forme di mercato e le variazioni nella distribuzione del reddito. Per la grande depressione conviene partire dal 1922, che prelude a sette anni di prosperità. Per la crisi in corso partiamo dal 1992, nel 1991 c’ era stata una modesta flessione; la successiva fase di prosperità è durata 9 anni. Negli anni Venti si affermarono due grandi innovazioni, elettricità e automobili; negli anni Novanta le innovazioni trainanti sono state l’ elettronica, l’ informatica e le telecomunicazioni. Le innovazioni: più sono importanti, più sono diffuse le occasioni d’ investimento che offrono e più lunga è la fase di prosperità. Al tempo stesso, però, sono più vigorose le ondate speculative innescate dall’ aumento dei profitti e dei corsi azionari, più frequenti sono gli errori dei manager e più si estendono i debiti di ogni scadenza. I mutamenti nelle forme di mercato: la prima guerra mondiale aveva impresso una forte accelerazione a mutamenti in atto da tempo.
Le grandi imprese oligopolistiche, che fino al principio del Novecento erano l’ eccezione, in diverse industrie diventano la regola. Inoltre, con la diffusione dei giornali e della radio riceve grande impulso la pubblicità, che fa crescere la differenziazione di prodotti e di servizi. Nell’ industria e nel commercio i prezzi oramai variano coi costi – lavoro e materie prime – non con la domanda. Negli anni Trenta la caduta violenta dei prezzi alla produzione e al consumo (25%) non fu che il riflesso della caduta dei prezzi delle materie prime e del lavoro. Oggi i prezzi delle materie prime diminuiscono molto meno che allora sia per il sostegno pubblico ai prezzi agricoli sia per i cartelli che operano nei mercati delle materie prime minerarie. In tali condizioni, mentre può aver luogo una deflazione intesa come caduta della domanda, è assai improbabile che abbia luogo una deflazione di prezzi, che negli anni Trenta fece salire fortemente il peso reale dei debiti. Esiste invece il rischio di una caduta nei prezzi delle case, che avrebbe effetti disastrosi sulla capacità di contrarre prestiti da parte delle famiglie. Gli alti profitti delle imprese oligopolistiche in parte sono trasformati in compensi ai top manager: ciò ha impedito la crescita delle riserve, che servono proprio quando c’ è bufera. Al tempo stesso gli alti profitti favoriscono l’ acquisizione di altre grandi imprese.
La diseguaglianza distributiva aumenta per la crescita straordinaria dei profitti, per i compensi ai top manager – ciò che era avvenuto anche negli anni Venti ma in misura ben più limitata – e per le misure fiscali a favore dei ricchi, come ha messo più volte in evidenza Nicola Cacace. L’ aumento della diseguaglianza distributiva ha rallentato la crescita dei consumi di massa, sostenuta, d’ altro lato, dal credito facile. Tutti questi processi hanno fortemente incentivato l’ espansione dei debiti; oggi negli Stati Uniti il problema centrale è proprio quello della sostenibilità dei debiti. La ripresa sarà possibile solo dopo che sarà superata la fase in cui imprese e famiglie contraggono debiti soprattutto per ripagare quelli che scadono ed evitare i fallimenti e, nel caso di certe imprese, per pagare i dividendi e sostenere il corso delle azioni o per rafforzare i fondi pensione falcidiati da perdite in borsa – tutte operazioni fatte per sopravvivere, non per crescere.
Da qualche mese è in atto una ripresa della borsa, che tuttavia non può essere vista come il segnale di una ripresa economica generale – molti pensano che vada attribuita principalmente ai tagli fiscali sui dividendi. La prova che i debiti avranno riacquistato la loro funzione di sostegno dello sviluppo sarà dato dalla ripresa degli investimenti, che finora non si vede. E’ tuttavia improbabile che la crisi in atto raggiunga la gravità della grande depressione degli anni Trenta, dal momento che abbiamo praticamente escluso una significativa deflazione di prezzi. Ma già una situazione di quasi ristagno rappresenta un grave problema, poiché la disoccupazione aumenta – il ristagno del reddito non porta con sé l’ arresto nella crescita della produttività. Un’ osservazione sul debito pubblico e ed una su quello estero.
Il primo è un problema in Europa, non negli Stati Uniti; rischia di diventarlo se per i tagli fiscali e per motivi militari – occupazione dell’ Iraq – le spese in deficit continuano a crescere rapidamente. Quanto al debito estero, esso spiega perché il dollaro perde valore rispetto all’ euro; il deprezzamento del dollaro è deleterio per le esportazioni europee ed è segno che l’ afflusso di capitali esteri negli Stati Uniti è in diminuzione; quell’ afflusso era forte quando sia l’ economia dell’ America sia quella dell’ Europa si sviluppavano in modo sostenuto. La malattia è complessa: occorrerebbe un consulto di economisti di diversi paesi, i quali dovrebbero esaminare l’ opportunità di un’ intesa fra i paesi più industrializzati volto a stimolare l’ espansione reciproca fra i mercati – penso ad una serie coordinata di trattati commerciali che fra loro s’ intarsino, sulla linea di una politica opposta a quella del protezionismo emulativo adottata negli anni Trenta.
L’ Europa dovrebbe cogliere questa occasione – dal male può nascere il bene – per rilanciare vigorosamente una politica di aiuti ai paesi della fame dell’ Africa sub-sahariana – aiuti reali, però, non finanziari – creando tre sistemi di centri, diffusi sul territorio: per la lotta all’ analfabetismo, per l’ assistenza sanitaria, per la formazione di esperti agrari e industriali capaci di ammodernare le attività produttive delle comunità di villaggio. Gli aiuti ai paesi della fame potrebbero rafforzare la ripresa, dotandola di un obiettivo di civiltà. Bush è in difficoltà per le menzogne sulle armi di distruzione di massa di Saddam e per la crisi economica. Sopravviverà politicamente? Non credo, anche se non è affatto certo che le cose vadano come ho indicato qui. Dobbiamo tuttavia riflettere sull’ ipotesi della scomparsa politica di Bush in tempi relativamente brevi. Le conseguenze sarebbero enormi per tutti, io dico che sarebbero positive, anche per l’ America.
PAOLO SYLOS LABINI La Repubblica 15 sez. COMMENTI
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