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Un articolo di Martin Wolf sul Financial Time pubblicato su il Sole 24 Ore

L’accordo di Parigi è un progresso decisivo nella battaglia per limitare i rischi dei cambiamenti climatici, come sostengono gli esausti negoziatori? O è semplicemente un’altra stazione di sosta sulla via che ci porta alla calamità, come insistono i detrattori? In questa fase non è nessuna delle due cose. E’ molto di più di quello che il mondo poteva ragionevolmente aspettarsi un anno o due fa. Ma è anche molto di meno di quello di cui il mondo ha bisogno.

Così com’è, servirà  tutt’al più a rallentare il ritmo di avvicinamento a un possibile disastro. Se riuscirà  a evitarlo, questo disastro, dipenderà  in parte dal funzionamento del sistema climatico, tema su cui permane molta incertezza. Ma dipenderà  anche da cosa succederà  nel prossimo futuro. Questo accordo è l’inizio di rivoluzioni nelle politiche degli Stati e nel sistema energetico? Oppure è l’ennesimo pezzo di carta che promette molto più di quello che mantiene? La risposta dipende da quello che succederà  adesso.

I successi dei negoziatori, con l’abile regia del Governo francese, sono tutt’altro che trascurabili. Hanno dimostrato che è possibile mettere d’accordo le nazioni mondiali per contrastare un pericolo comune, anche se appare remoto e incerto a molti di quelli attualmente in vita. Hanno concordato che tutti i Paesi dovranno partecipare allo sforzo. Hanno concordato che i ricchi dovranno aiutare i poveri a raggiungere i loro obbiettivi di «decarbonizzazione». Hanno concordato anche sull’obbiettivo di contenere l’aumento della temperatura globale ben al di sotto di 2 gradi centigradi, e perfino di «impegnarsi» per contenerlo al di sotto di 1,5 gradi.

Ma si tratta, apparentemente, di successi più di forma che di sostanza. Lo stanziamento dei fondi necessari è un’aspirazione, non un impegno pronto cassa. Nessun limite verrà  imposto alle emissioni dell’aviazione civile o del trasporto navale. Non verrà  creato nessun meccanismo per fissare un prezzo mondiale per le emissioni. I Paesi si sono impegnati, principalmente, solo a comunicare e mantenere piani (definiti, con linguaggio sfuggente, «contributi stabiliti a livello nazionale»). Nessuna sanzione verrà  imposta a un Paese che non dovesse rispettare gli intenti dichiarati. Peggio ancora: gli intenti stessi, anche se si riuscisse a tradurli in realtà  (cosa su cui è lecito esprimere dubbi), sono largamente inadeguati al raggiungimento dell’obbiettivo dei 2 gradi massimi di aumento della temperatura, figuriamoci un obbiettivo ancora più ambizioso. Considerando che l’aumento della temperatura media già  adesso è poco al di sotto di 1 grado, per limitare l’incremento finale a 1,5 gradi ci vorrebbe una rivoluzione.

Ma allora perché un accordo che, oltre ad avere le armi spuntate, è inadeguato a ridurre i rischi a livelli gestibili, dovrebbe essere preso sul serio? Una risposta è che costringe ogni Paese a sottoporsi a un processo di revisione tra pari.

Tutti i Paesi dovranno ripresentare i loro piani ogni cinque anni. Inoltre, il sistema di rendicontazione e monitoraggio sarà  più trasparente ed esaustivo di prima. In particolare, i Paesi emergenti e in via di sviluppo, che ormai giocano un ruolo dominante nelle emissioni (la Cina in testa a tutti) saranno parte di questo sistema. Alla fine, si è deciso che obbiettivi non vincolanti ma monitorati sono più efficaci di qualsiasi impegno vincolante, che potrebbe essere raggiunto oppure no (più probabile).

Soprattutto, se tutti si impegnano a produrre un piano (perché tutti sono d’accordo che la sfida è importante), sarà  molto più difficile, per qualsiasi Paese, sostenere che il mancato rispetto delle promesse non è importante. O meglio, sarebbe più difficile, a patto che il prossimo presidente degli Stati Uniti non sia un repubblicano.

Le ragioni per essere scettici restano tuttavia considerevoli. Ricordiamoci che negli ultimi venticinque anni di negoziati sul clima, le emissioni di anidride carbonica, l’accumulo di anidride carbonica nell’atmosfera e perfino le emissioni pro capite sono aumentate. Il compito è molto più difficile di quanto sarebbe stato se si fosse agito prima. Ma la crescita dell’economia mondiale supera di gran lunga il calo delle emissioni per unità  di prodotto. Se non si sacrificherà  la crescita (cosa che l’umanità  non accetterà ), il ritmo del calo delle emissioni dovrà  accelerare enormemente. E’ una sfida da far tremare i polsi.

La cosa veramente importante non è l’accordo di Parigi, ma quello che seguirà. I piani nazionali dovranno essere ambiziosi, e diventare ancora più ambiziosi in fretta. Il mondo ha bisogno anche di un nuovo modello di investimenti e di nuove fonti di finanziamento, sostenute da un cambiamento degli incentivi. In un modo o nell’altro, ci sarà  bisogno di un prezzo mondiale per le emissioni. E anche di un’accelerazione dell’innovazione tecnologica. L’annuncio, a Parigi, della «missione innovazione» per accelerare i progressi nel campo delle energie pulite, basata sull’idea di «un programma Apollo mondiale» lanciata a giugno, potrebbe cambiare le carte in tavola. Ma sarà  così solo se saranno dedicate a tale scopo sufficienti risorse umane e finanziarie.

Come ci si poteva aspettare, le reazioni di molti, all’interno dell’industria dei combustibili fossili, dimostrano che non si sentono (ancora) minacciati. Già  in passato leader politici si sono impegnati allo spasimo per tagliargli l’erba sotto i piedi, fallendo palesemente nell’intento. La minaccia immediata, per loro, non è un prezzo alto delle emissioni di anidride carbonica, ma un prezzo basso per i carburanti che producono e vendono. Sia le aziende del settore sia i grandi utilizzatori di combustibili fossili sono politicamente potenti, e possono ritenere, a ragione, che nel momento in cui si tratterà  di creare i piani nazionali e fissare le priorità  si troveranno comunque in una posizione eccellente per sventare qualsiasi impegno ambizioso, in particolare quelli incoraggiati da un processo tanto accomodante.

In alcuni Paesi, in particolare gli Stati Uniti, l’opposizione sarà  esplicita e accanita. Altrove sarà  più signorile, ma i risultati potrebbero essere più o meno gli stessi.

Provo simpatia per l’entusiasmo di tanti, a Parigi. Questo accordo è costato grande fatica. Ma è solo un piccolo passo, anche se è un passo nella giusta direzione. E’ decisamente prematuro cullarsi nell’idea che la curva delle emissioni ora piegherà  con decisione verso il basso. Laozi, l’antico saggio cinese, diceva: «Un viaggio di mille miglia comincia con un singolo passo».

L’interrogativo è se l’umanità  ha la volontà, o anche semplicemente il tempo, per portare a compimento un viaggio che ha cominciato così tardi.

 

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