Un articolo di Gabriele Capolino su Milano Finanza
Secondo David Marsh, economista inglese presidente dell’Official Monetary and Financial Institutions Forum, le bordate sparate dal Fondo monetario internazionale e dal Tesoro degli Stati Uniti contro l’enorme surplus di parte corrente della Germania presenta parallelismi inquietanti con la situazione che precedette, 45 anni fa, la fine del sistema valutario di Bretton Woods. Sia la relazione semestrale valutaria del Tesoro americano sia il primo Vice Direttore del FMI, David Lipton hanno esortato il governo di Angela Merkel a ridurre il surplus di esportazioni della Germania in modo da stimolare la crescita e non la deflazione nel resto dell’Eurozona.
Il clima sembra quello dell’autunno del 1968, in cui gli Usa (presidente Lyndon B. Johnson) si allinearono con Gran Bretagna e Francia nell’accusare l’allora governo di Bonn di sabotare la crescita mondiale attraverso una miope politica economica. Gli alleati occidentali fecero pressione sulla Germania perché rivalutasse il marco e frenasse così il surplus da esportazione. Bonn allora resistette, utilizzando un linguaggio non diverso da quello usato da Berlino la settimana scorsa per confutare le tesi americane, salvo poi arrendersi l’anno successivo.
Dietro l’attacco attuale, c’è la realtà di una crisi dell’Eurozona ben lungi dall’essersi esaurita. La situazione di stallo tra i creditori e debitori della zona euro è sempre più radicata. I paesi periferici a fatica stanno lentamente affrontando la realtà di almeno altri cinque anni di alta disoccupazione, bassa crescita e continue vessazioni da parte dei creditori prima di poter svoltare l’angolo.
L’Europa, secondo Marsh, può avere davanti a sé ancora anni difficili, simili al periodo 1968-1973, in cui crollò il sistema di cambi fissi deciso a Bretton Woods alla fine della II guerra mondiale. Allora, invece di rivalutare il marco, la grande coalizione che sostenne il cancelliere Kurt Georg Kiesinger decise di attuare un pacchetto di imposte sotto forma di un prelievo del 4% sulle esportazioni e un rimborso fiscale delle stesse dimensioni sulle importazioni: secondo Bonn, quello era un metodo più flessibile di contrastare gli enormi afflussi di valuta.
Quello fu invece il preludio di una conferenza monetaria internazionale estremamente tesa convocata a Bonn dal 20 al 22 novembre 1968 dal ministro delle finanze Karl Schiller allorquando la crisi si acuì. I tedeschi di nuovo rifiutarono di rivalutare il marco e la delegazione francese a malincuore accettò di svalutare il franco, decisione immediatamente bloccata dal presidente Charles de Gaulle. L’anno dopo, il franco venne svalutato e il marco rivalutato. Con le finanze americane sotto stress per la guerra del Vietnam, e con le crescenti pressioni di cambio causate dallo yen e dal marco sottovalutati, il sistema di Bretton Woods si avviò a un inesorabile declino, prima del crollo progressivo dei tassi di cambio fissi nel 1971-1973.
Ci sono, per il commentatore americano, tre principali differenze con quel periodo, nessuna positiva. In primo luogo, rispetto alla Germania divisa in due del dopoguerra, oggi la Repubblica Federale tedesca può confrontarsi con gli Stati Uniti in modo molto più indipendente e sovrano. La reazione di Berlino contro gli Stati Uniti per lo spionaggio contro la cancelliera Angela Merkel dimostra la progressiva irritazione e separazione dei tedeschi dall’America. In secondo luogo, a denunciare le politiche monetarie dei tedeschi non sono solo gli alleati europei degli americani ma anche, dietro le quinte, la Cina. In terzo luogo, le chances di Berlino di accettare le richieste americane sono rese incommensurabilmente più complicate dall’appartenenza all’Unione monetaria: la complessità incrociate del blocco dell’euro e della natura della prossima coalizione di governo tedesca escludono la possibilità di una risposta costruttiva.
Le somiglianze sono invece impressionanti. L’ultima analisi economica mondiale del Fondo monetario dipinge un quadro piuttosto fosco del riequilibrio dell’euro: la domanda esterna proveniente dall’Eurozona è stata così debole da influire negativamente sulla performance delle esportazioni dei paesi sotto pressione, soprattutto in Italia e in Portogallo. “L’implicazione è che il deficit delle partite correnti di quei paesi potrebbe ampliarsi notevolmente in presenza di una disoccupazione che non accenna a calare” dice il Fondo monetario, che prevede che la Germania proseguirà con avanzi delle partite correnti pari a circa il 5% del prodotto interno lordo almeno fino al 2018 (rispetto al 7% dello scorso anno). L’indicatore chiave di vulnerabilità usato dall’Fmi, le passività nette sull’estero, saranno fino al 2018 superiori all’80% del Pil in Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna, dove la crescita rimarrà bassa e la disoccupazione elevata. I debitori peggiori, Portogallo e Grecia, rimarranno con debiti superiori al 100% del Pil. Al contrario, la posizione patrimoniale netta sull’estero in Germania continuerà a essere positiva, fino a un sorprendente 75% del Pil entro il 2018.
Proprio come con il marco alla fine di Bretton Woods, l’euro tedesco all’interno dell’unione monetaria è notevolmente sottovalutato. Senza i paesi problematici, il tasso di cambio di un blocco europeo di nazioni nordiche raggruppate intorno alla Germania sarebbe più vicino a 1,80 dollari rispetto all’attuale 1,38.
L’euro è troppo forte per i paesi periferici indebitati in modo permanente, non abbastanza forte per la Germania, le cui fiorenti esportazioni al di fuori della zona euro sono sostenute dalla intrinseca sottovalutazione della moneta. Anche dopo tre anni e mezzo di crisi conclamata, l’Unione monetaria rimane afflitta da distorsioni della competitività, dell’indebitamento e delle condizioni economiche che superano di gran lunga quelle che portarono alla fine di Bretton Woods.
Distorsioni di questo tipo, secondo Marsh, possono essere sanate solo da una crescita sostenuta, da aggiustamenti dei tassi di cambio o da una svalutazione del debito. Dal momento che, nelle condizioni attuali, le prime due soluzioni non sono possibili, per l’economista americano non può che aumentare la probabilità di una sostanziale ristrutturazione del debito nel blocco dei paesi dell’euro nel prossimo anno.
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