
Paolo Sylos Labini e Alessandro Roncaglia hanno pubblicato il libro “Per la ripresa del riformismo” con l’Unità. Il libro è gratuitamente accessbile su qusto sito (cliccare qui). Ne riproponiamo dei brani e questa è la terza puntata (la seconda qui).
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Com’è ovvio, stiamo semplificando problemi terribilmente complessi, su cui esiste un’ampia letteratura e in vari casi un vivace dibattito. Può essere utile, quindi, soffermarci su un esempio particolare. La divisione del lavoro implica che gli individui producano cose diverse da quelle di cui hanno bisogno; devono cedere quel che producono, e procurarsi in cambio quello che desiderano. Abbiamo così una miriade di decisioni distinte, di cosa e quanto produrre, di cosa e quanto consumare.
Ciascuno deve prendere le sue decisioni senza sapere cosa contemporaneamente decidono gli altri. Il mercato, come gli economisti non si stancano di ripetere, è un potente strumento di coordinamento delle scelte individuali. Alcuni economisti (ma non Smith, al quale l’espressione è stata erroneamente attribuita) parlano di ‘mano invisibile del mercato‘ per accennare a questo aspetto; un filone della ricerca economica, per lungo tempo dominante nelle università anglosassoni, giunge a sostenere che in condizioni particolari il mercato realizza un coordinamento ottimale delle scelte individuali. Altri economisti – il più noto fra i quali è John Maynard Keynes – sostengono invece che i mercati, lasciati a se stessi, generano risultati tutt’altro che ottimali: tra i casi di ‘fallimento del mercato’, la disoccupazione è il principale. Possiamo cioè avere persone disposte a lavorare che non trovano un lavoro, anche se la società è ben lontana dall’aver raggiunto la saturazione dei bisogni.
Senza entrare nel merito delle teorie della disoccupazione, qui ci è sufficiente ricordare che per Keynes non solo la disoccupazione è possibile, ma è anche l’esito probabile in assenza di interventi pubblici a sostegno della domanda (e quindi anche di istituzioni atte a ridurre l’incertezza delle scelte imprenditoriali: cosa di cui si dimenticano quanti riducono la ricetta keynesiana a una spesa pubblica in disavanzo). Nella posizione di Keynes, dunque, è implicita sia una scelta di valore – la disoccupazione è un male – sia un giudizio ottimistico sulle possibilità di migliorare la situazione con una politica attiva. Non sono posizioni ovvie e universalmente condivise: come insegna la signora Thatcher, per un conservatore la disoccupazione può avere l’utile funzione di ridurre il potere dei sindacati, e ‘tenere al loro posto’ i lavoratori. Quanto all’ottimismo sulle politiche attive anti-disoccupazione, si tratta di una valutazione duramente contrastata da tanti economisti conservatori, ad esempio da Milton Friedman e dai suoi seguaci, assai influenti sotto Reagan: per sfiducia nelle motivazioni e nelle capacità di azione razionale dei responsabili della politica economica prima ancora che per fiducia nelle capacità di autoregolazione del mercato.
Per Keynes, le politiche attive contro la disoccupazione sono un elemento fondamentale per la stessa possibilità di sopravvivenza dell’economia di mercato, e quindi della democrazia politica. Per Beveridge, che in questo segue e sviluppa l’impostazione di Keynes, i fallimenti del mercato riguardano anche aspetti assai rilevanti della sicurezza sociale; è quindi necessario un intervento attivo dello stato anche in questi settori, fino a prefigurare quello che è stato poi chiamato welfare state, o stato sociale. Mentre le idee di Beveridge sono state in larga misura tradotte in pratica, nell’Inghilterra del secondo dopoguerra e in tanti altri paesi, gli schemi ancora più avanzati di Ernesto Rossi, ai quali abbiamo già accennato sopra, sono rimasti sulla carta.
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