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BANCHE-CREDITO-IMPRESE

di Guglielmo Forges Davanzati

E’ opinione diffusa che la restrizione del credito in atto dipenda dalla sottocapitalizzazione del sistema bancario e che, conseguentemente, il rimedio consista nel ricapitalizzarle, incentivandole ad adottare modalità  di gestione più efficienti.

Una banca si considera sottocapitalizzata sulla base di parametri costruiti dal comitato di Basilea. Il Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria è un’organizzazione internazionale nata nel 1974, formata dai governatori delle banche centrali del G10, operante sotto la supervisione della Banca dei regolamenti internazionali. Si tratta di parametri stringenti, che di fatto impongono alle banche di accrescere le riserve e ridurre le esposizioni a più alto rischio.

La ratio che è alla base di queste norme è nella convinzione che, solo così facendo, è possibile evitare fallimenti. Con riferimento al caso italiano, su fonte Banca d’Italia (2013 e 2014), si rileva che, a fine dicembre 2013, le sofferenze bancarie si aggirano attorno a circa 155,5 miliardi (il 15.5% dei crediti complessivi) a fronte dei 77 miliardi circa della seconda metà  del 2010. Se si ritiene che ciò dipenda da eccessiva propensione al rischio delle banche o, più in generale, da una gestione inefficiente, allora la regolamentazione si rende effettivamente necessaria[1].

E tuttavia, si può rilevare che si tratta di una tesi smentita dall’evidenza empirica, che attesta l’andamento procicliclo dell’offerta di credito[2]. In altri termini, l’offerta di credito bancario cresce in fasi espansive e si riduce in fasi recessive, in modo del tutto indipendente dalle modalità  di gestione degli Istituti di credito. In tal senso, il fenomeno rinvia evidentemente a fattori macroeconomici.

In particolare, si può rilevare che il deterioramento dei bilanci bancari dipende dalla caduta dei profitti delle imprese, a sua volta imputabile alla caduta della domanda aggregata. Ciò a ragione del fatto che, riducendosi la domanda, si riducono i mercati di sbocco interni e, conseguentemente, si riducono i ricavi di vendita e i profitti. Le politiche di austerità  costituiscono parte integrante del problema, dal momento che l’aumento della pressione fiscale e la compressione della spesa pubblica riducono ulteriormente la domanda interna, attestando che – contrariamente all’opinione dominante – sussiste una relazione diretta fra spesa pubblica e profitti.

Il nesso esistente fra riduzione della domanda e riduzione del credito è maggiormente accentuato in Italia in considerazione di due caratteristiche della nostra economia.

1) Le nostre imprese producono prevalentemente per mercati locali e, dunque, una caduta della domanda interna ha immediati effetti negativi sui loro profitti e, conseguentemente, sulla loro solvibilità.

2) Le imprese italiane sono, nella gran parte dei casi, imprese di piccole dimensioni, che non hanno accesso ai mercati finanziari e che, dunque, possono finanziare i loro investimenti o tramite il canale bancario o attraverso i loro fondi interni. E’ evidente che una prolungata fase recessiva comporta caduta dei profitti e, per conseguenza, minori possibilità  di autofinanziamento, rendendo le imprese sempre più dipendenti dal sistema bancario.

In tal senso, la restrizione del credito opera una ridistribuzione delle risorse finanziarie fra imprese indipendentemente dalla loro efficienza. Ciò per due ragioni.

In primo luogo, una fase di intensa e prolungata recessione si associa a maggiore incertezza, e maggiore incertezza si associa, a sua volta, a maggiore diffusione di comportamenti consuetudinari[3]. Per quanto attiene ai rapporti banche-imprese, ciò spinge ad adottare modelli di relationship banking, ovvero a privilegiare – nelle scelte di allocazione del credito – imprese con le quali le banche hanno già  strutturato reti relazionali. Ne deriva un mercato del credito duale, nel quale coesistono imprese con rapporti consolidati con il sistema bancario che ottengono credito e potenziali nuove imprese che, proprio in quanto nuove, risultano discriminate. Il relationship banking è un fattore di freno alla crescita, sia perché non necessariamente le imprese finanziate sono più efficienti di quelle discriminate, sia perché riduce la numerosità  di imprese.

In secondo luogo, le imprese maggiormente penalizzate sono, con ogni evidenza, le imprese di piccole dimensioni che non hanno accesso ai mercati finanziari. Le imprese di più grandi dimensioni possono agevolmente reperire risorse senza passare per il canale bancario. Perché ciò sia per loro possibile, ovvero perché riescano a vendere titoli, deve ridursi l’offerta di titoli di Stato, perché ciò rende minimo l’impatto di effetti di “spiazzamento”. E, dunque, deve accadere che vengano ridotti i debiti sovrani. Nella migliore delle ipotesi (per queste imprese), deve accadere che i bilanci pubblici siano in pareggio. Letta la questione in questi termini, risulta che il pareggio di bilancio è funzionale all’acquisizione di risorse sui mercati finanziari, quantomeno da parte delle imprese di più grandi dimensioni.

Imporre requisiti più stringenti all’attività  bancaria può facilmente tradursi nell’accentuazione della restrizione del credito, se non altro perché le banche avranno minori possibilità  di finanziare imprese e famiglie[4]. D’altra parte, se l’obiettivo è evitare fallimenti bancari, questo obiettivo può essere più agevolmente raggiunto attraverso interventi di nazionalizzazione. Interventi che, peraltro, troverebbero la loro ratio come possibile implicazione della visione dominante: se si ritiene che la gestione privata delle banche è inefficiente, dovrebbe discenderne che può essere più efficiente la loro gestione pubblica.

NOTE

[1] V. G.Pilluso (2014), Riscrivere le regole in Europa, rivedere il modello delle banche in Italia, “Economia Italiana”, 1, pp.21-28.
[2] V. Becker, B. and Ivashina, V. (2011). Cyclicality of credit supply, Harvard Busines School, working paper 10-17, August.
[3] V., fra gli altri, G.M.Hodgson (1988). Economics and Institutions. Oxford: Polity Press.
[4] V. B.Vallageas (2013). Basel III and the strenghening of capital requirement: The obstinancy in mistake or whi ‘it’ will happen again, in L-P-Rochon and M.Seccareccia (eds.). Monetary economies of production. Cheletenham: Elgar; E.Screpanti (2011). Globalization and the great crisis, in E.Brancaccio and G.Fontana (eds.). The global economic crisis, London: Routeldge.

(pubblicato su Micromega, 8 maggio 2014)

 

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