L’uomo è un animale sociale e aspira ad avere l’orgoglio di appartenere a una comunità: la famiglia, il gruppo, la patria. Ora, la Patria in Italia è venuta tardi e in condizioni infelici. Ancora un secolo fa l’analfabetismo era gigantesco. Quando, all’inizio del Novecento, Salvemini di batteva per il suffragio universale, le persone che avevano diritto di voto erano il 6-7% della popolazione.
Con una legge di Giolitti salirono al 20%, quando per votare bisognava sapere leggere e scrivere e avere un piccolo peculio; il voto, poi, era concesso solo agli uomini.
Il pericolo del fascismo lo capirono in pochi, all’inizio. Lo stesso Benedetto Croce fu per anni filofascista e, da senatore, votò a favore di Mussolini, anche dopo il delitto Matteotti. Solo in seguito divenne uno dei padri dell’antifascismo. Anche nell’esigua cultura liberale dell’epoca, quelli che denunciarono il regime fin dall’inizio non furono molti: Piero Gobetti, Giustino Fortunato e pochi altri. Retorica a parte il cosiddetto impero e poi la seconda guerra mondiale, con tutti quei richiami all’antica Roma, non potevano certo far crescere l’autostima del popolo italiano e, quindi, l’amor di Patria.
E, infatti, l’ubriacatura passò in fretta, con la campagna di Grecia, che svelò a tutti la nostra assoluta impreparazione. L’ostilità al regime divenne diffusa e fortissima e poi la sconfitta apparve ignominiosa proprio perché gl’italiani si resero conto dell’irresponsabilità del capo che si autoproclamava infallibile ma che aveva gettato l’Italia, in quelle condizioni, nella fornace di una guerra terribile. Penso che la morte della Patria risalga a quella tragedia.
Ma credo si debba riflettere sulle cause del micidiale, radicale cinismo che oggi domina tutto in questo paese: un’assuefazione al malaffare che diventa ambiente e costringe le persone civili e oneste – ce ne sono ancora, e tante – a una ammutolita paralisi.
Occorre rinfocolare il coraggio di combattere. Ed è l’informazione particolareggiata dei fatti che dà coraggio. Penso, per esempio, al libro “Gli intoccabili” di Saverio Lodato e Marco Travaglio (Rizzoli). Solo la verità può rednere liberi quanti oggi non vogliono essere servi, ma finiscono per esserlo inconsapevolmente col torpore rassegnato che li paralizza.
Una condizione che io spiego non solo col nostro machiavellico cinismo, ma anche con qualcosa di ancora peggiore: una grave carenza di autostima, come direbbe Adamo Smith; un diffuso autodisprezzo, come dico io.
Spesso, dopo infinite discussioni su questi temi, mi capita di sentire da persone di “destra” e di “sinistra” la terribile battuta: “Ma che diavolo pretendi, in fondo siamo italiani!”. E ogni volta mi domando perché ci siamo ridotti in questo stato miserabile, in questo abisso di abiezione che, sotto certi aspetti, è peggiore id quello in cui ci aveva cacciati Mussolini.
Certo, la mancanza di senso dello stato, che deriva dalla mancanza di uno stato. Certo, la superficialità della cultura popolare e la grave debolezza della borghesia intellettuale ed economica spiegano il carattere volubile dell’opinione pubblica e la facilità con cui viene sistematicamente ingannata per mezzo del micidiale potere persuasivo del monopolio televisivo. Certo, i guasti della Controriforma senza Riforma. Certo, i sottoprodotti della morale cattolica, che privilegia la misericordia piuttosto che la giustizia.
Non tanto perché il protestantesimo sia migliore del cattolicesimo, ma perché da noi la Chiesa ha avuto il potere temporale, e dunque ha usato la religione come instrumentum regni.
Come meravigliarci, allora, se l’unità d’Italia non s’è mai davvero compiuta, se il bene comune non è mai stato considerato come un obiettivo di tutti, a dispetto del nostro nazionalismo di cartapesta?
Paolo Sylos Labini
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