Attenzione, anche la mafia è una comunità, con le sue regole, il suo codice, il suo diritto, le sue istituzioni. Per coloro che ne fanno parte, pure se si definiscono uomini d’onore, è difficile provare orgoglio, ma è facile toccarne con mano i benefici, ricchezze, potenza, protezione.
La studio da quarant’anni, la mafia: da quando Giangiacomo Feltrinelli, nel 1958, mi propose di organizzare un gruppo di ricercatori – ero allora professore a Catania – per condurre un’indagine ad ampio raggio in Sicilia, che alla fine diventò un corposo volume di 1500 pagine.
Nel giugno 1965, dopo Catania, fui ascoltato dalla commissione parlamentare Antimafia, presieduta dal senatore Donato Pafundi (la mia deposizione fu poi pubblicata nel 1970 da Laterza, in Problemi dello Sviluppo economico). Nel 1974 mi dimisi dal comitato tecnico-scientifico del Ministero del Bilancio, di cui facevo parte da circa un decennio, quando il titolare di quel dicastero, Giulio Andreotti, nominò sottosegretario Salvo Lima. Siccome Lima compariva più volte nelle relazioni dell’Antimafia, ed era stato oggetto di ben quattro autorizzazioni a procedere della magistratura, feci presente la cosa al mio amico Nino Andreatta, perché ne parlasse con Aldo Moro, presidente del Consiglio. Qualche giorno dopo Andreatta tornò da me con la coda tra le gambe: Moro gli aveva confessato la sua impotenza perché – gli aveva detto – “Lima è troppo forte e troppo pericoloso”.
Allora affrontai l’argomento direttamente con Andreotti, dicendogli : “O lei revoca la nomina di Lima, che scredita l’immagine del ministero, oppure mi dimetto”. Non mi lasciò neppure finire: m’interruppe e mi liquidò dicendo che ne avremmo parlato un’altra volta. A quel punto resi ufficiali le mie dimissioni. La mia lettera fu pubblicata dal Corriere della Sera e da vari altri giornali, e la cosa fece un certo scalpore per alcune settimane. Ci furono anche delle vibrate proteste dei giovani DC. Poi calò l’oblio.
Di quella faccenda si tornò a parlare quando Gian Carlo Caselli e i suoi PM mi chiamarono a testimoniare al processo Andreotti. : era chiaro, da quell’episodio, che Andreotti – e non solo lui – sapevano benissimo chi era Lima. Lo sapevo perfino io …. La cosa che mi colpì fu che il mio gesto fu visto come una prova di coraggio non comune. E’ deprimente che, in Italia, un gesto di normale decenza venga visto così. Dà la misura di come ci siamo ridotti.
Mafia vuol dire appalti, licenze edilizie, aree fabbricabili, sistemi d’irrigazione, controllo dei mercati ortofrutticoli, e sull’acqua, cioè sulla vita dei siciliani, e poi commercio di droga e altri affari sporchi, ma anche “puliti” come il Ponte sullo Stretto e la grande mangiatoia della sanità pubblica.
Ma soprattutto mafia vuol dire agganci con la politica, con l’economia, con pezzi delle istituzioni che non saprei nemmeno se chiamare “deviate” oppure no (in questo paese deviati rischiano di essere quelli che la mafia la combattono davvero).
L’Antimafia è sempre stata affidata a pochi “volontari” isolati e forse anche un po’ matti. Cioè un’élite di poliziotti, carabinieri, magistrati, giornalisti, intellettuali e politici che hanno maturato, non si sa come, quel senso dello Stato e dell’autostima che non è mai divenuto patrimonio di tutti.
La cultura delle regole, il senso della legalità, l’amore per la trasparenza sono da sempre minoritari, in Italia. Per una serie infinita di fattori storici, da noi non s’è mai affermata una cultura liberale e democratica di massa: i liberalsocialisti come i liberalconservatori sono sempre stati quattro gatti, guardati con un misto di sospetto e di curiosità dai ceti dominanti. Il che spiega perché l’autoritarismo, come la cultura mafiosa, hanno sempre trovato terreno fertile. E spiega anche perché oggi il regime berlusconiano, terribile sintesi della cultura autoritaria e di quella mafiosa, incontra resistenze così scarse.
Paolo Sylos Labini
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