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Paolo Sylos Labini e  Alessandro Roncaglia hanno pubblicato il libro “Per la ripresa del riformismo” con l’Unità. Il libro è gratuitamente accessbile su qusto sito (cliccare qui). Ne riproponiamo dei brani.

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Sempre di Einaudi, pubblichiamo il rifacimento della voce Liberismo destinata al Piccolo dizionario politico, parte di un corso di educazione civica intitolato Uomo e cittadino (Berna, 1945), ora in Annali della Fondazione Luigi Einaudi di Torino, XX, 1986, pp. 151-153 e recentemente riproposto nel numero 65 della rivista Critica liberale. Lo ripubblichiamo dedicandolo a quanti si proclamano liberisti ma operano per il suo esatto contrario.
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Liberismo. E’ parola che è intesa in significati svariati. Vi è chi ritiene che liberismo sia la dottrina di coloro i quali vorrebbero ridurre al minimo i compiti dello stato e si indicano anche, abbreviatamente, tali compiti come quelli del soldato per la difesa della patria, del carabiniere per il mantenimento dell’ordine e del giudice per la punizione dei colpevoli di delitti e per la definizione dei litigi tra i cittadini. Sarebbe perciò impossibile citare passi di autori di fama riconosciuta in cui tale dottrina sia esplicitamente affermata senza molte riserve, le quali variano da tempo a tempo e da paese a paese. Più ragionevolmente, si possono chiamare liberisti coloro i quali in genere vogliono che lo stato faccia passi assai più prudenti nella via dell’intervenire nelle faccende economiche, ed i quali giustificano siffatto loro atteggiamento prudente sovratutto con preoccupazioni d’indole morale e politic225px-LuigiEinaudia. Quanto più, essi dicono, lo stato regola le cose economiche, tanto più frequenti diventano i rapporti tra i cittadini e gli impiegati statali, tanto più aumenta il numero dei sorveglianti in proporzione a quello dei sorvegliati. La società  si corrompe, perché gli eletti del popolo, invece di essere scelti da uomini indipendenti, sono scelti anche e in certi luoghi sovratutto da coloro che, facendo parte della burocrazia statale, dovrebbero essi stessi essere controllati. Si moltiplicano le occasioni di corruzione politica ed amministrativa per ottenere dallo stato che si interessa di tutto favori, licenze, permessi, autorizzazioni di fare la tale o tale altra cosa, che pure si deve fare per vivere.

I liberisti attirano l’attenzione sulla corruzione imperversante in taluni paesi dove massime furono le ingerenze dello stato nella vita economica; e affermano che se lo stato deve fare qualcosa, ciò deve accadere sulla base di leggi chiare e semplici, applicabili oggettivamente a casi ben definiti e non per ciò di arbitrio amministrativo. In senso più ristretto, si definisce liberista colui il quale è contrario al protezionismo doganale e alle sue forme peggiorative, che prendono il nome di contingenti, proibizioni, vincoli ai cambi delle divise estere ed autarchia. I liberisti sono favorevoli alla libertà  degli scambi di merci (ed anche alla libertà  dei movimenti degli uomini) in primo luogo perché ritengono che la divisione del lavoro fra paese e paese, unita alla libertà  di dedicarsi a quei lavori, a quelle industrie, a quelle coltivazioni alle quali ognuno si sente più adatto, sia mezzo efficacissimo di aumentare la produzione della ricchezza e di migliorare la distribuzione; ed in secondo luogo e sovratutto perché temono la corruzione politica.

Se industriali, agricoltori, operai sanno di non poter ottenere favori dai parlamenti, non hanno interesse a corrompere od influenzare gli eletti; se invece sanno che, mandando un loro rappresentante nelle Camere ed influenzando gli altri, essi possono ottenere una legge, la quale con un dazio doganale alla frontiera tiene lontana la concorrenza estera, nasce l’interesse a falsare la volontà  del popolo ed a rendere questo servo dei loro monopoli e privilegi.

Si chiamano liberisti coloro i quali preferiscono rinunciare a qualche eventuale (molto eventuale) vantaggio che in casi particolarissimi si potrebbe ottenere stabilendo un dazio a favore, ad esempio, di una industria giovane – ed i teorici hanno elencato parecchi di questi casi particolari – allo scopo di mantenere pura la vita politica, lontano dai mercanteggiamenti a cui dà  necessariamente luogo la concessione di protezioni doganali. In questo senso deve essere interpretata la celebre massima laissez faire, laissez passer. Essa non vuol dire che lo stato debba lasciar passare il male, tollerare il danno dei più a vantaggio dei pochi. Vuol dire che, nella maggior parte dei casi, salvo prova contraria assai difficile a darsi, l’industriale e l’agricoltore deve essere lasciato lavorare a suo rischio e pericolo e non deve essere protetto contro la concorrenza dello straniero.

Chi chiede protezione contro lo straniero o sussidi o favori dallo stato, nove volte su dieci è il nemico del suo connazionale e vuole ottenere un monopolio per estorcere prezzi più alti, profitti più lauti e salari ultranormali a danno dei suoi connazionali. Resta quel caso su dieci o su cento che meriterebbe di essere considerato, ma il liberista esita anche in confronto ad esso, perché l’esperienza storica gli ha dimostrato che all’ombra di una iniziativa meritevole di incoraggiamento statale, passa trionfalmente il contrabbando di mille avventurieri e sfruttatori del pubblico. Il liberismo non è una dottrina economica, ma invece una tesi morale.

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