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Gabriele Catania intervista Luciano Canfora

Il potere ha un che di ambiguo, anche quando si vive in democrazia. Seduce e  allo stesso tempo spaventa. Forse per la sua intrinseca natura, ferocemente  oligarchica. Perché a dominare sono sempre le élite: nella Roma dei Cesari come  nella Francia della rivoluzione, nella Russia sovietica come nell’Europa  contemporanea. E al potere, e alle sue molteplici forme, ha dedicato anni di  studio Luciano Canfora, 71 anni, docente di Filologia classica all’Università  di  Bari. Tra gli intellettuali più stimati d’Italia, Canfora è autore di testi  quali La natura del potere e Intervista sul potere (a cura del  giornalista Antonio Carioti). Entrambi editi da Laterza, i due libri sono  disamine lucide e spietate. Capaci di mettere a nudo la quintessenza del potere:  un pugno di uomini che, per dirla con Gramsci, «a loro volta si organizzano  intorno a uno dotato di maggiore capacità  e di maggiore competenza». Canfora fa  tesoro della lezione gramsciana, applicandola tanto al “dittatore democratico”  Cesare quanto alla Banca Centrale Europea (dal potere sì assoluto, ma fondato  sulla competenza, e ben mediato). E’ la legge ferrea dell’oligarchia, mai così  vera come nei ferrei tempi d’oggi.

Professore, Marx ed Engels definivano il potere esecutivo dello Stato  come «il comitato d’affari comuni della borghesia nel suo complesso». Non è una  definizione datata? Non lo si potrebbe piuttosto definire come il cda che  amministra gli intessi di un ristretto gruppo di azionisti? Si  tratta di un gruppo inafferrabile, un gruppo di cui non conosciamo pienamente  l’identità. La novità, secondo me, è che mentre fino a cinquant’anni fa la  distinzione dei ruoli era chiara – c’erano i governanti e c’era il potere  economico – ora il potere economico non si fida più tanto dei governanti, e  quindi pone direttamente i suoi esponenti ai vertici degli Stati… O delle  banche che governano gli Stati. Non si tratta più di un comitato d’affari per  conto di terzi, ma di gestione diretta. Questa è una svolta preoccupante, che  nessuno osa dichiarare tale. Attrezzarsi forse è necessario.

In Intervista sul potere (Laterza) lei ha raccontato la sua  esperienza al vertice del Partito Comunista Italiano: «vi trovai conferma del  carattere inevitabilmente elitistico di ogni formazione e di ogni società   politica». E in effetti, come ha scritto Napoleone, le élite si creano perfino  tra gli operai. Insomma, si ha l’impressione che il potere sia sempre,  intrinsecamente, elitistico. Il potere è inevitabilmente  elitistico. Non sarebbe potere se non fosse nelle mani di pochi organizzati. Le  élite, poi, sono di vario tipo. Ci sono élite che si guadagnano sul campo il  diritto di essere tali. Ci sono élite che invece usurpano questo ruolo, e poi ci  sono élite che si ricambiano l’una con l’altra, o che subentrano l’una  all’altra. Noi non siamo, ovviamente, in grado di prevedere queste svolte della  storia. E’ toccato a noi, che ormai ci troviamo nel XXI secolo, assistere alla  nascita di élite diversissime da quelle che conoscevamo. Faccio un esempio: la  formazione culturale delle élite”¦ Dove avviene ? In quali luoghi di studio e  addestramento ? Ormai il potere economico si crea esso stesso i propri luoghi di  formazione, totalmente al riparo da ogni controllo.

Atene è ancora oggi esempio di democrazia, almeno in Occidente.  Quale peso avevano le élite nell’Atene periclea, dove a decidere erano  trentamila cittadini, tutti maschi liberi? Qual era il peso delle grandi  famiglie, ad esempio quella di Nicia? Il peso delle élite era  notevolissimo perché non tutti i trentamila cittadini facevano politica. La  politica era una fatica, un peso. Gruppi sociali più o meno ampi controllavano i  lavori e il funzionamento dell’Assemblea, ma senza mai scalzare le élite dal  loro potere. Perché avevano più formazione (paideia), più cultura, più  ricchezza, più strumenti. Quindi c’era una dialettica costante”¦ Le grandi  famiglie, i grandi gruppi nobiliari, i gruppi di potere economico. Il più ricco  di Atene era Nicia, che aveva  l’appalto delle miniere d’argento del  Laurion, quindi contava più di tutti gli altri. Però lo stesso Nicia aveva paura  di essere schiacciato dall’Assemblea. Quindi c’era un rapporto di reciproca  tensione tra le élite e l’assemblea. E’ un caso unico nella storia dei regimi  popolari: il popolo controlla ma non governa.

L’Assemblea era quindi una valvola di sfogo? Assolutamente. In un certo senso lo stesso accade nei nostri Stati moderni,  dove la ciclica operazione di votare serve a dare l’impressione al  demo, al popolo, di contare. E in parte questo avviene indubbiamente,  ma con dei condizionamenti: leggi elettorali, manipolazioni del consenso,  formazione dell’opinione pubblica, grande stampa, televisione e così via.

Come si concilia il perenne elitismo delle società  con i bonapartismi  e cesarismi che si verificano periodicamente ? Cosa succede: le élite “prestano”  il potere a un uomo solo e poi glielo “tolgono” (o fanno “togliere”) quando  questi ha raggiunto gli obiettivi che loro volevano? I vari uomini  forti sono strumenti di consenso. Perché il leader carismatico è necessario per  galvanizzare il consenso. E’ il più bravo, per così dire, però è costantemente a  rischio.

Ma se il potere è perennemente elitistico, che senso ha fare una  rivoluzione? Alla fine, studiando la storia, si ha l’impressione che il popolo  sia solo carne da cannone usata per dare la spallata all’élite che c’è e  mandarne al potere un’altra. Il problema è che la storia non è  programmabile. Le rivoluzioni non scoppiano perché qualcuno decide di  scatenarle. Scoppiano perché sono incontenibili in determinati momenti. E per  qualche tempo introducono modifiche profonde. Possono anche fallire, ma lasciano  il segno. La Rivoluzione francese è fallita, nel senso che gli uomini che  l’hanno fatta sono stati liquidati. L’uomo che pensava di aver risolto tutto  attraverso il potere personale, cioè Napoleone Bonaparte, è finito come è  finito. Ma quei venticinque anni [dallo scoppio della Rivoluzione francese alla  caduta di Napoleone ndr] hanno cambiato profondamente l’Europa.

Certamente. Tuttavia la Rivoluzione francese fece il gioco delle  élite borghesi, che poterono così scalzare il vecchio ceto latifondista  nobiliare, no? La Rivoluzione ha affossato l’Ancien Régime. E  poiché la borghesia è una classe molto più dinamica di tutte quelle che in  precedenza hanno avuto il potere, passeranno secoli prima che se ne veda il  tramonto.

In Natura del potere (Laterza) lei si domanda: «la  compenetrazione tra le due sfere – potere visibile e potere remoto – trova alla  fine il suo (imprevisto) inveramento nella pervasiva corruzione della politica,  sospinta gagliardamente sul terreno ‘affaristico’?». Beh, in Italia tutto questo  è davvero plateale. Credo che il principio di John Stuart Mill,  secondo il quale il vero egoismo è l’altruismo, dovrebbe regolare le élite più  intelligenti. Invece le élite più grossolane, meno preparate, per esempio quelle  che hanno avuto l’egemonia in Italia per tanto tempo, hanno uno sguardo corto.  Per loro l’affarismo è una scorciatoia verso il potere, ma si sbagliano. Perché  in questo modo sono destinate a soccombere dinanzi ad altre, più abili, e che  probabilmente sapranno gestire meglio quel potere che esse credevano di  possedere per sempre.

Quali sono, a suo parere, le élite che governano oggi  l’Italia? L’Italia di oggi è governata da lontano. Non abbiamo una  politica estera nostra, non abbiamo il potere di decidere sui destini della  nostra economia, non possiamo neanche decidere il bilancio dello Stato perché  esso è stato già  stabilito quando Monti ha firmato quegli impegni all’inizio del  suo governo. Si potrebbe dire che siamo un Paese a sovranità  controllata, come  si diceva dei Paesi-satellite dell’URSS ai tempi di Brežnev. Solo che in quel  caso si trattava di un’élite sclerotizzata, quasi monumentalizzata, immobile. Le  nostre élite sono più duttili. Nel caso italiano, tuttavia, c’è una  contraddizione latente tra le potenzialità, anche economiche e tecnologiche, del  nostro Paese, e la condizione di minorità  politica alla quale siamo ridotti.

Qual è il suo giudizio sul governo Letta? E’ il  tappabuchi di una situazione che deve ancora maturare, e che trascende le  persone attualmente al governo.

 (Linkiesta, 14 luglio 2013)

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