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tasse casadi Gianfranco Viesti

Perché il governo ha deciso di cancellare le tasse sulla prima casa, anche e soprattutto agli italiani più abbienti? Proviamo a capirne le ragioni, punto per punto.

Primo. E’ una decisione che va in senso opposto rispetto alle convinzioni più volte manifestate dal primo ministro e dal ministro dell’Economia. Come documenta un articolo di Lidia Baratta apparso su Linkiesta,  ai tempi del governo Letta Renzi scriveva  che «per creare lavoro dobbiamo dare una visione per i prossimi vent’anni, il problema non è l’Imu». E nel programma del WikiPD (2011): «quel che serve è una rivoluzione copernicana del sistema fiscale che riduca la pressione sul reddito personale e sulle imprese e la accresca sugli immobili e sulle rendite finanziarie». Pier Carlo Padoan nel febbraio 2014 dichiarava a «la Repubblica»: «le tasse che danneggiano di meno la crescita sono quelle sulla proprietà, come l’Imu, mentre le tasse che, se abbassate, favoriscono di più la ripresa e l’occupazione sono quelle sul lavoro». Mentre l’attuale responsabile economico del Pd, Filippo Taddei, così si era espresso nel dicembre 2013 a proposito dell’abolizione dell’Imu: «Una discussione incredibile, una battaglia ideologica. Era evidente a tutti che si trattava di tempo perso, visto che parliamo di un’imposta pari, in media, a 250 euro a famiglia all’anno e che quasi il 30 per cento della popolazione ne era già  esente».

Secondo. Ha profonde implicazioni redistributive, in senso negativo: toglie ai poveri per dare ai ricchi. Basta riprendere le parole, necessariamente assai misurate, del vicedirettore della Banca d’Italia, Luigi Federico Signorini, nella sua audizione al Senato il 29 settembre scorso (peraltro ripresa assai parzialmente dalla grande stampa): «può avere peraltro rilevanti ricadute sul piano distributivo: l’esenzione della prima casa determinerebbe ad esempio un risparmio d’imposta crescente con la rendita catastale dell’abitazione».

Terzo. Ha un effetto assai dubbio sul rilancio dell’economia. Ancora Signorini: «i consumi delle famiglie potrebbero beneficiare di tale sgravio», ma «l’evidenza empirica suggerisce peraltro che i consumi direttamente influenzati dallo sgravio potrebbero essere circoscritti alle famiglie soggette a vincoli di liquidità ». In altri termini, lasciare un po’ più di denaro alle famiglie relativamente più abbienti non si traduce, se non in minima parte, in consumi addizionali.

(continua  a leggere, Il Mulino, 5 ottobre 2015)

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