
Tra le proposte del Jobs act figura l’introduzione dell’ormai noto contratto unico a tutele crescenti di cui esistono diverse versioni. In alcune il “nuovo” contratto a tempo indeterminato dovrebbe sostituire ogni forma contrattuale a termine, in altre convive con alcune tipologie flessibili cui legare standard minimi di tutela. La sostanza non cambia. E’ un contratto che consente al datore di lavoro un recesso molto semplificato previo un indennizzo economico proporzionato all’anzianità, ma senza reintegro (senza cioè l’art. 18). L’impressione è che ci si continui a basare su un presupposto ideologico più che sul merito, radicato negli ambienti accademici e nelle istituzioni della governance economica mondiale. Lo ritroviamo nel Rapporto Ocse del 1994 – vera e propria bibbia del pensiero liberista – poi acquisito dal Fmi e poi dalla Bce. Secondo la ricetta mainstream «solo un mercato del lavoro perfettamente flessibile, in un contesto neutrale di politiche macroeconomiche potrebbe aumentare l’occupazione». Oggi, con il pretesto della crisi e l’incursione della Bce nelle politica degli Stati il mantra è il medesimo, come conferma l’ultimo rapporto Oecd Going for growth: l’eccessiva rigidità del mercato del lavoro scoraggerebbe gli investimenti esteri e rappresenterebbe la causa principale di precarietà e disoccupazione, producendo il cosiddetto dualismo insiders vs outsiders. Per controbbattere sarebbe sufficiente ricordare che la maggior parte delle aziende dove trova applicazione l’art. 18 si colloca in quelle aree dove si registra alta occupazione e dove si producono i beni a più alto valore aggiunto.
C’è però almeno un altro argomento che merita di essere richiamato. I rapporti di lavoro diversi dal contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato sono tanti. Ed è noto che le collaborazioni a progetto e le partita Iva rappresentano la fetta più problematica, perché gran parte di questi contratti, formalmente di lavoro autonomo, mascherano lavoro subordinato. La disponibilità «giuridica» dei contratti di lavoro autonomo, economicamente convenienti in quanto privi di tutele, ha reso possibile una vera e propria fuga dallo statuto «protettivo» del lavoro subordinato. Una “confusione” tutta italiana, utilizzata come pretesto per tagliare il costo del lavoro (anche nei settori pubblici dove l’abuso è ancora più eclatante). La grande diffusione del lavoro autonomo nelle imprese con meno di 15 dipendenti (dove non si applica l’art. 18) è una ulteriore conferma che l’assenza di una tutela forte contro il licenziamento non esclude il ricorso a forme contrattuali diverse dalla subordinazione.
Le migliori performance occupazionali che si registrano in Europa hanno in comune non la libertà di licenziare ma serie politiche di formazione e tasse elevate anche per sostenere di strumenti di tutela del reddito universali. In Italia è avvenuto bel altro. Dagli anni 90 ci siamo trovati di fronte a una fuga dal lavoro stabile unita ad una politica di contenimento salariale, con l’obiettivo di sostituire la svalutazione competitiva con la compressione del costo del lavoro.
Per salvare l’economia reale, quella che produce valore e che mette al centro le persone e il lavoro, abbiamo bisogno di una strategia diversa. Fondata su politiche industriali e investimenti pubblici che mettano al centro ricerca e innovazione tecnologica. Perciò è insostituibile, in Italia più che altrove, il ruolo dello Stato, capace di fare quegli investimenti rischiosi che le imprese non sono in grado di realizzare. Perché ciò sia possibile serve una governance europea alternativa a quella attuale, che è incompatibile con qualunque ipotesi di sviluppo.
L’ideale sarebbe che ciò avvenisse perseguendo allo stesso tempo l’obiettivo di riunificare davvero il lavoro, introducendo un obbligo formativo in tutti i contratti e costruendo un welfare universale. Si potrebbe partire dalle idee elaborate da Massimo D’Antona dalla nostra Costituzione, che tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni (art. 35). Non solo quello subordinato, ma tutto il lavoro che, per ostacoli di ordine sociale ed economico (art. 3 della Costituzione), non diventa strumento di sviluppo delle persona umana e di partecipazione collettiva.
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