
Carlo Rosselli (Roma, 16 novembre 1899 – Bagnoles de l’Orne, Francia, 10 giugno 1937) assunse molto giovane una posizione di opposizione al fascismo. Fu mandato al confino a Lipari dove scrisse l’opera più famosa, Il socialismo liberale , pubblicato poi nel 1930 a Parigi. Fu assassinato assieme al fratello Nello da sicari francesi per ordine di Mussolini il 10 giugno 1937 a Bagnoles de l’Orne in Francia. Pubblichiamo qui alcuni brani da Il socialismo liberale, estratti dal VI volume delle Opere scelte di Carlo Rosselli , Torino 1973.
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Nella nuova concezione socialista liberale i problemi di giustizia sociale e di vita associata possono e debbono porsi sullo stesso piano di quelli di libertà e di vita individuale. Il socialismo deve tendere a farsi liberale e il liberalismo a sostanziarsi di lotta proletaria. Non si può essere liberali senza aderire attivamente alla causa dei lavoratori, e non si serve efficacemente la causa del lavoro senza fare i conti con la filosofia del mondo moderno, fondata sull’idea di svolgimento per via di contrasti eternamente superantisi, nei quali celasi appunto il succo della posizione liberale. Tutta la socialdemocrazia europea, e non solo europea, si muove verso una forma di rinnovato liberalismo, che riassorbe in sé i motivi di movimenti apparentemente opposti (illuminismo borghese e socialismo proletario).
Dovunque essa si batte per le libertà individuali, politiche, di voto e di coscienza. Gli aspetti messianici, finalistici, passano al secondo piano, mentre si impongono i problemi del concreto moto di emancipazione operaia. L’idea di una società perfetta di liberi e di eguali, senza classi, senza lotta, senza Stato, si trasforma ogni giorno di più in un ideale limite che vale non in sé, quanto come stimolo e fuoco dello spirito. La nuova fede si alimenta nel fatto della lotta e della ascensione proletaria, nello sforzo della società tutta quanta per superare i termini angusti ed ingiusti della società borghese, nella perenne sete di giustizia e ansia di libertà. E, più in generale – elevandosi ad una contemplazione distaccata del moto sociale – nella visione della vita come inesausto cozzo di forze e ideologie che negandosi si superano per accedere a forme superiori di assetto sociale e di attività spirituale.
La formula socialismo liberale suona all’orecchio di molti, usi alla terminologia politica corrente, come una stonatura. La parola liberalismo ha servito purtroppo a contrabbandare merci di così varia specie e natura, e fu a tal punto per il passato orto borghese, che mal si piega oggi il socialista ad impiegarla. Ma qui non è che si voglia proporre una nuova terminologia di partito. Si vuol solo ricondurre il moto socialista ai suoi principi primi, alle sue origini storiche e psicologiche. Si vuol solo dimostrare come il socialismo, in ultima analisi, sia filosofia di libertà. Passò d’altronde il tempo in cui politica borghese e politica liberale-liberista si identificavano. In tutto il mondo le borghesie non sono più liberiste e non sono più necessariamente liberali. Quanto più il moto proletario s’afferma e si rafforza nelle masse il senso attivo della libertà, e tanto più la borghesia, nelle sue frazioni più retrive, tenta di sottrarsi alla disciplina e al metodo della libertà. Gli stessi nuovi orientamenti della produzione moderna, sacrificando la personalità nell’operaio, costringono i socialisti a una funzione, anche nel senso tradizionale della parola, liberale.
Verrà giorno in cui questa parola, questo attributo, sarà rivendicato con orgogliosa consapevolezza dal socialista. Nella sua più semplice espressione il liberismo può definirsi come quella teoria politica che, partendo dal presupposto della libertà dello spirito umano, dichiara la libertà supremo fine, supremo mezzo, suprema regola della umana convivenza. Fine, in quanto si propone di conseguire un regime di vita associata che assicuri a tutti gli uomini la possibilità di un pieno svolgimento della loro personalità. Mezzo, in quanto reputa che questa libertà non possa essere elargita od imposta, ma debba conquistarsi con duro personale travaglio nel perpetuo fluire delle generazioni. Esso concepisce la libertà non come un dato di natura, ma come divenire, sviluppo. Non si nasce, ma si diventa liberi. E ci si conserva liberi solo mantenendo attiva e vigilante la coscienza delle propria autonomia e costantemente esercitando le proprie libertà.
La fede nella libertà è al tempo stesso una dichiarazione di fede nell’uomo, nella sua indefinita perfettibilità, nella sua capacità di autodeterminazione, nel suo innato senso di giustizia. Il liberale veramente tale è tutt’altro che uno scettico. E’ un credente, anche se combatte ogni affermazione dogmatica; è un ottimista, anche se ha della vita una concezione virile e drammatica. Questo in sede astratta. In sede storica il discorso si complica perché il liberalismo ha una storia ideale e pratica che, nel suo svolgersi, ha dato vita a una straordinaria messe di esperienze e di provvisorie teorizzazioni. Nato dal pensiero critico moderno, ebbe la sua prima affermazione con la Riforma religiosa. Nelle atroci guerre di religione, in cui gli uomini si dilaniarono in nome delle opposte fedi e degli opposti dogmi, nacque, come il fiore sulle rovine, la libertà di coscienza religiosa. Cattolici e protestanti, incapaci di sterminarsi a vicenda, acconsentirono alla tregua e riconobbero a tutti gli uomini il diritto di professare il culto che più loro conveniva.
Il principio di libertà si allargò alla vita della cultura nei secoli XVII e XVIII per effetto del progresso scientifico e di quel movimento di ascensione economica e intellettuale della borghesia che culmina nell’Enciclopedia; e trionfò finalmente in sede politica con la rivoluzione dell’89 e la sua Dichiarazione dei diritti dell’uomo; per tendere infine ai tempi nostri ad informare di sé tutta la vita sociale, in tutti i suoi aspetti e in tutte le sue parti, nella sfera economica in particolare, per far sì che la libertà, teorica proclamazione universale rispondente in fatto all’interesse di pochi, diventi veramente patrimonio di tutti. Il socialismo non è che lo sviluppo logico, sino alle sue estreme conseguenze, del principio di libertà. Il socialismo inteso nel suo significato più sostanziale e giudicato dai risultati – movimento cioè di concreta emancipazione del proletariato – è liberalismo in azione, è libertà che si fa per la povera gente.
Dice il socialismo: l’astratto riconoscimento della libertà di coscienza e delle libertà politiche a tutti gli uomini, se rappresenta un momento essenziale nello sviluppo della teoria politica, ha un valore ben relativo quando la maggioranza degli uomini, per condizioni intrinseche e ambientali, per miseria morale e materiale, non sia posta in grado di apprezzarne il significato e di valersene concretamente. La libertà non accompagnata e sorretta da un minimo di autonomia economica, dalla emancipazione dal morso dei bisogni essenziali, non esiste per l’individuo, è un mero fantasma. […] Il movimento socialista è dunque il concreto erede del liberalismo, il portatore di questa dinamica idea di libertà che si attua nel moto drammatico della storia. Liberalismo e socialismo, ben lungi dall’opporsi, secondo quanto voleva una vieta polemica, sono legati da un intimo rapporto di connessione.
Il liberalismo è la forza ideale ispiratrice, il socialismo la forza pratica realizzatrice. La borghesia fu, un tempo, l’antesignana di questa idea di libertà, la depositaria della funzione liberale: quando, rompendo il quadro chiuso e gelido della vita feudale, vi portò germi fecondi di vita. Nella sua lotta contro il dogmatismo della Chiesa e l’assolutismo dei re, contro i privilegi dei nobili e i privilegi del clero, il mondo morto di una produzione immobile e coatta, la borghesia impersonò per una lunga teoria di secoli le esigenze di progresso della intera società. […] Il sedicente liberalismo borghese si è forgiato un sistema rigido, chiuso, puntellato da quell’insieme di principi economici, giuridici, sociali, che si riassumono sinteticamente con la formula: Stato capitalistico borghese. Esso si richiama ancora ai vecchi principi della Rivoluzione francese, ma questi principi appaiono come cristallizzati, mummificati, privati del loro intimo significato, contraddicenti a quello che era lo spirito animatore di coloro che, in un impeto di generoso entusiasmo, cotesti principi proclamarono. […] Il liberalismo borghese è impotente a intendere il problema sollevato dal movimento socialista: non comprende cioè che la libertà politica e spirituale non è in grado, da sola, di realizzare l’esigenza liberale […].
Solo alcune frazioni della borghesia esercitano ancora una utile, diciamo anzi, pressoché indispensabile funzione progressista. E quali? Quelle che, indipendentemente dal privilegio della nascita, realizzano nella vita nuovi valori nella sfera della intelligenza pura e del lavoro di direzione: gli intellettuali, gli scienziati, la parte più sana e più attiva della borghesia industriale ed agraria, e quelle figure formidabili del mondo moderno che sono gli imprenditori, i grandi capitani di industria, i politici dell’economia; coloro che, in qualunque regime economico, avranno il compito di coordinare i vari fattori produttivi e di mantenere inesausto il ritmo del progresso economico. […] La società borghese è marcia, la società borghese è ricolma di attriti, di vizi, di ingiustizie: quindi, la si abbatta. Piano.
In materia sociale abbatte solo chi sa costruire, anzi si abbatte solo nella proporzione in cui si è ricostruito, non foss’altro perché la vita sociale non può conoscere soste e regressi. […] Ora lo spirito liberale è essenzialmente dialettico e storicista; per esso la lotta è l’essenza stessa della vita; la storia è la risultante di un perpetuo confluire ed urtarsi di forze; nulla quindi di più illiberale ed utopistico che volerle assegnare un percorso obbligato. Per il liberale nessun principio, nessun programma, per quanto mitico e lontano nel tempo, può assumere quel sapore assoluto, categorico, che assume invece nei socialisti il loro programma finalistico. […] Marx però riteneva che questo processo di sviluppo fosse rapidissimo e determinasse in breve volvere di tempo una crisi catastrofica nel sistema dei rapporti capitalistici; mentre la realtà ha dimostrato come questo sviluppo non conducesse necessariamente a conclusioni socialiste. […]
Comincia a farsi strada in molti studiosi eminenti (vedi la recente clamorosa conversione di G.D.H. Cole, uno dei più acuti socialisti britannici), la convinzione che per certi rami di industria il problema più importante è quello della democratizzazione del regime di fabbrica e del controllo della direzione tecnica e sociale nell’interesse della collettività. […] Per il liberalismo, e quindi per il socialismo, è fondamentale la osservanza del metodo liberale o democratico di lotta politica; di quel metodo che, per la sua intima essenza, è tutto penetrato dal principio di libertà. Esso può riassumersi con una sola parola: autogoverno. […] L’esempio italiano del 1919-20 è dolorosamente probante. Il partito socialista, pur avendo ottenuto un grandissimo successo elettorale, aveva raccolto non più, e anzi meno, di un terzo dei voti: non disponeva perciò della maggioranza, malgrado le elezioni si fossero svolte, per la prima e ultima volta in Italia, in guisa del tutto regolare.
Pure esso dichiarò solennemente alla borghesia che l’ora sua ultima era suonata, che si preparasse a scomparire, che la rivoluzione nelle strade stava per scoppiare, che alla rivoluzione sarebbe seguita la dittatura, con la soppressione morale e fisica di tutte le minoranze dissenzienti. E’ vero che si limitò poi, salvo sporadici episodi, ad erigere barricate di schede e di ordini del giorno. Ma intanto fece in pieno il giuoco degli elementi reazionari i quali, facendosi forti delle scioccherie degli estremisti, riuscirono a travestirsi da agnellini restauratori delle libertà offese e del diritto violato. Con quali conseguenze è inutile dire. Che la lezione almeno serva, che la si smetta di fare i machiavellici, i filosofi della storia; che ci si astenga nell’avvenire dal voler inserire nei programmi socialisti di tutto un po’ – legalità e violenza, pace e guerra, democrazia e dittatura – pur di non farsi trovare «impreparati».
In politica bisogna parlare sempre chiaro, anche a costo di far la figura di semplicisti. E che la si smetta anche di fare gli eterni scettici, di credere che la legge di Caino, la legge della violenza e del sangue, debba in eterno regnare tra uomini di una stessa terra. […] Via via che le condizioni economiche migliorano – e si sono grandemente migliorate -, via via che la classe operaia procede nella sua affermazione politica, via via che lo Stato si apre alle esigenze nuove, e la stessa borghesia, nelle sue frazioni più progressiste, non contrasta più con l’ostinazione tradizionale il processo di emancipazione proletaria, i problemi di cultura e di moralità debbono salire al primo piano, pena 153 lo smarrirsi e il corrompersi del movimento […]. E’ consolante perciò rilevare come in questi ultimi anni queste esigenze d’ordine spirituale siano venute, sia pure timidamente, affacciandosi nel seno stesso della classe operaia, per merito di quello stesso moto sindacale che sembrava sensibile alle sole questioni di orario e di salario.
La richiesta sempre più insistente per il controllo operaio, per la compartecipazione alla direzione della produzione, per la costituzionalizzazione del regime di fabbrica, le battaglie su questioni di principio e di dignità, rivelano il sorgere di una dignità nuova nell’operaio medio, che non si accontenta più dei soli miglioramenti materiali, ma intende affermare la sua personalità autonoma entro e fuori la fabbrica, non solo come cittadino ma anche come produttore. […] Prima di chiudere queste considerazioni sul socialismo liberale vorrei indicare sommariamente quelli che mi appaiono come gli estremi dell’abito mentale e dello stato d’animo del socialista liberale.
Il socialista liberale, fedele alla grande lezione che sgorga dal pensiero critico moderno, non crede alla dimostrazione scientifica, razionale, della bontà delle empiriche soluzioni socialiste e neppure alla storica necessità dell’avvento di una società socialista. Non si illude di possedere il segreto dell’avvenire, non si crede depositario della verità ultima, definitiva, in materia sociale, non china la fronte dinanzi a dogmi di nessuna specie. Non crede che il regime socialista sarà e si affermerà nei secoli per una legge trascendente la volontà degli uomini. Anzi, considerata la cosa freddamente, può anche ammettere in via di ipotesi che le forze del privilegio, della ingiustizia, della oppressione dei molti nell’interesse dei pochi, possano continuare a prevalere. Il suo motto è: il regime socialista sarà, ma potrebbe anche non essere.
Sarà se noi lo vorremo, se le masse vorranno che sia, attraverso un consapevole sforzo creatore. In questo dubbio, in questo virile relativismo, che spinge prepotente all’azione e vuole fare ampio posto alla volontà umana nella storia; in questo demone critico che obbliga di continuo a rivedere, alla luce delle nuove esperienze, la propria posizione; in questa fede nei valori supremi dello spirito, e nella meravigliosa forza animatrice della libertà, fine e mezzo, clima e leva, sta lo stato d’animo di un socialista sortito fuor dal pelago marxista alla riva liberalistica. L’azione è la sua più vera divisa. Egli è socialista per tutto un insieme di principi e di esperienze; per la convinzione tratta dallo studio dei fenomeni sociali; ma lo è soprattutto per fede, per sentimento, per adesione attiva – ecco il punto, ecco il vaglio – alla causa dei poveri e degli oppressi. Chiunque questa causa faccia propria non può non muoversi nello spirito del liberalismo e nella pratica del socialismo.
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Paolo Sylos Labini e Alessandro Roncaglia hanno pubblicato il libro “Per la ripresa del riformismo” con l’Unità. Il libro è gratuitamente accessbile su qusto sito (cliccare qui). Ne riproponiamo dei brani.
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