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La continuità  fra Monti, Letta e Renzi è netta. Anzi, quella di Letta è stata anche un poì di finanza creativa stile Tremonti. Ma la continuità  c’è anche nei vincoli al volume dello stimolo pubblico che sarebbe necessario. Aumentare la competizione fra aziendee ridurre un po’ quella tra stati membri: questa sembra la vera sfida per il governo Renzi

All’insediamento del governo Letta scrivevo che, sulla base di ciò che si sapeva delle sue idee e della sua collocazione politica, avremmo avuto meno austerità  e più “riforme strutturali” (termine omnicomprensivo per “fregature per i lavoratori”).

La prima previsione, nonostante il colore sulla stampa nazionale, si è realizzata. Sotto le mentite spoglie del vampiro di Montiana memoria, il ministro Saccomanni ha evitato di stringere i cordoni della borsa pubblica tanto quanto le norme europee, i trattati internazionali e la nostra stessa Costituzione (con il nuovo articolo 81) avrebbero richiesto. Se al governo avessimo avuto l’altro falso conservatore Tremonti, l’avremmo chiamata finanza creativa: sopravvalutazioni delle entrate future, sottovalutazioni delle uscite future, “privatizzazioni” di facciata, operate tramite la cessione di assets dal Tesoro alla Cassa Depositi e Prestiti. Su queste ultime: certo niente impedisce ora alla Cdp, a sua volta, di vendere qualcuno di questi assets al mercato, dunque privatizzando davvero, ma di questo, in caso, non potremo dare l’intera responsabilità  a Saccomanni.

Se guardiamo al Def e alla Legge di Stabilità  del governo Letta, troviamo ad esempio la previsione di una cospicua riduzione degli spread sui tassi d’interesse dei titoli decennali rispetto a quelli tedeschi: addirittura a 200 punti base nel 2014, 150 nel 2015 e 100 a partire dal 2016; la previsione di una crescita del Pil reale (e quindi delle imposte) superiore alle previsioni della Commissione Europea, dell’Ocse, del Fondo Monetario Internazionale e di praticamente tutti gli istituti privati; la mancata inclusione di alcune spese che realisticamente emergeranno nel 2014 (il rifinanziamento della Cassa Integrazione in Deroga, le missioni militari internazionali); l’inclusione di entrate considerate poco realistiche (ad esempio entrate da dismissioni per ben un punto percentuale di Pil ogni anno, già  dal 2014).

La seconda previsione, sulle “cose da fare”, non si è realizzata. Come ha autorevolmente ripetuto il nuovo Presidente del Consiglio Matteo Renzi, il governo Letta è stato particolarmente parco di “riforme”, forse per via della difficoltà  di conciliare visioni e obiettivi molto diversi tra i diversi partiti della grande coalizione (ma non era l’Ulivo ad essere una iattura perché troppo eterogeneo?).

Con la nomina di Pier Carlo Padoan al Ministero dell’Economia, la strategia prevedibile del Governo Renzi rimane la stessa: noi facciamo i “compiti a casa” (altro neologismo per indicare le famose fregature per i lavoratori, di cui sopra) e in cambio otteniamo un po’ di ragionevolezza da Commissione e Consiglio Europeo.

Si tratta davvero di continuità, in quando questa era già  la strategia di Mario Monti, con lo scambio sostanzialmente riuscito nel 2011-2012 tra le riforme Fornero e lo “scudo anti-spread” (che poi sono stati almeno tre: i fondi europei di salvataggio, i mega-prestiti della Bce alle banche, gli Omt – certo non tutto merito di Monti, ma il suo ruolo di sponda a SuperMario Draghi, per un certo periodo, è stato evidente). Ad oggi la durezza contrattuale di Monti in sede di Consiglio Europeo andrebbe ricordata e lodata come non più ripetuta, almeno a giudicare dai resoconti giornalistici.

Ideologicamente, Padoan sembra forse di estrazione meno progressista degli ex-ministri Giovannini o Saccomanni, ma col governo Renzi potrebbe forse avere più margini di manovra per ottenere in sede europea, ad esempio, la golden rule sul bilancio pubblico (cioè lo scorporo degli investimenti dal computo del deficit pubblico, molto auspicata – sembrerebbe – dal nuovo Presidente del Consiglio). Certo, sarebbero immaginabili anche “riforme strutturali” non necessariamente regressive: ad esempio un’imposta patrimoniale che non colpisca solo gli immobili (tecnicamente difficilissimo, ma non impossibile). Ma i numeri al Senato sono tali che senza i voti del Nuovo Centro Destra, anche se si unisse SeL e magari qualche malpancista grillino, forse non si passerebbe lo stesso, quindi c’è poco di cui essere ottimisti.

Funzionerà  questa strategia? Lo scenario economico è così complesso che previsioni possono essere fatte solo in mala fede. Ma l’impressione rimane che, data la gravità  della situazione, il volume di stimolo pubblico alla domanda aggregata che sarebbe necessario all’Italia non ci è tanto impedito da norme europee, quanto dallo strapotere dei mercati finanziari e dal verosimile peggioramento dei conti dell’estero che ne deriverebbe. Dunque l’eventuale golden rule, pur benvenuta, difficilmente avrebbe dimensioni tali da poterla considerare una soluzione alla nostra crisi.

Entrambi i vincoli- gli squilibri delle bilance dei pagamenti e il potere di ricatto dei mercati finanziari – sono superabili, ma solo su scala e in sede europea. E qui il problema non è tanto la supposta cattiveria di Angela Merkel o Olli Rehn, quanto la mancanza di solidarietà  tra le classi lavoratrici dei diversi paesi membri.

Aumentare un po’ la competizione tra aziende, e ridurre un po’ la competizione tra stati membri: questa sembra la vera sfida per il governo di Matteo Renzi che, a questo punto sembra probabile, si troverà  a gestire il semestre europeo di presidenza italiana del Consiglio Ue. Riuscirci non dipenderà  solo dal team di ministri (ognuno dei quali, giova ricordarlo, siede nel Consiglio dei ministri europei di cui è responsabile per materia), ma da condizioni di contesto molto più ampie, a partire dal risultato delle prossime elezioni europee.

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