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futuro-nube

Il dibattito sulla riforma
I legami tra enti e università 
Senza ricerca
non c’è futuro
L’Accademia dei Lincei dovrebbe promuovere
un dibattito “super partes”

di PAOLO SYLOS LABINI

STIAMO vivendo un periodo quanto mai delicato: possiamo incamminarci verso un progressivo miglioramento della nostra società, lasciando dietro di noi la fetida palude in cui ci siamo dibattuti per anni; oppure possiamo continuare a vivere in una palude perfino più fetida e più estesa – il peggio non è mai morto. Molto dipende dal sistema della ricerca, il quale non è, come pensano molti politici, un settore importante, ma particolare: è invece la base dello sviluppo economico e di quello civile dell’intera società. Se paragoniamo la società  a un corpo umano, il sistema della ricerca va visto come il cervelletto.

Cominciamo con le prospettive dello sviluppo economico. Un’ampia varietà  di indici – quota delle spese sul prodotto interno lordo, numero dei ricercatori, numero dei brevetti, quota delle esportazioni dei beni di alta tecnologia – mostrano che la posizione del nostro paese nella Ricerca, già  debole, è diventata ancora più debole negli ultimi anni, soprattutto per effetto degli sforzi compiuti per Maastricht. E’ un fatto gravemente negativo, giacché a lungo andare la nostra economia diventa sempre più vulnerabile alla concorrenza dei Paesi arretrati in molte industrie tradizionali, come quella tessile e quella dell’abbigliamento, sia sul piano commerciale sia sul piano degli investimenti e un numero crescente di imprese si trasferisce in quei paesi attratte dai bassi salari, che rappresentano una frazione dei nostri.

Nel periodo breve e medio il design e la creatività  ci proteggono, ma nel lungo periodo la salvezza sta nelle tecnologie alte e medio-alte. Il nostro problema non sta solo nel progresso assai debole della ricerca: in certi rami – chimica, prodotti farmaceutici, acciaio – ha luogo addirittura un regresso. Si è detto che la responsabilità  è da attribuire a grandi società  straniere – americane, tedesche, svedesi – che hanno acquistato le nostre imprese leader e che sviluppano la ricerca soprattutto nei paesi di origine. No: non giova scaricare sugli altri una responsabilità  che è soprattutto nostra. Tuttavia, il danno più grave originato dall’insufficiente sviluppo della ricerca non sta nell’indebolimento dello sviluppo economico: riguarda lo sviluppo civile e consiste soprattutto nell’ostacolo alla crescita culturale e al miglioramento della qualità  del lavoro per le nuove generazioni: superata la soglia delle esigenze economiche elementari, il problema diventa sempre meno di quanto si ottiene come reddito ma di come lo si ottiene.

Lo sforzo per far uscire l’università  dalle infelici condizioni in cui oggi si dibatte, in buona misura coincide con lo sforzo per rimettere in moto la crescita della ricerca, pura e applicata; la riforma degli enti pubblici di ricerca rientra in questa strategia. Di recente sono circolate bozze di decreti di riforma di due importanti enti, il Cnr e l’Enea: c’è da preoccuparsi, giacché prevalgono gli elementi discrezionali e il ridimensionamento del ruolo della ricerca pubblica e mancano misure per stimolare le iniziative propriamente scientifiche. La ricerca pura e applicata ha problemi comuni, cosicché va attribuita la massima importanza ai rapporti fra università  ed enti di ricerca, un problema ignorato nel caso dell’Enea, mentre nel caso del Cnr si sopprimono, invece di migliorarli, i legami con l’università: esattamente l’opposto di quel che occorre fare. Va inoltre affrontata in modo organico la questione degli incentivi volti a far tornare in università  ed enti di ricerca del nostro paese scienziati italiani che oggi operano all’estero.

Fra l’altro, occorre sollevare docenti e ricercatori dalle incombenze amministrative, che oltre tutto comportano rischi di contestazioni da parte della magistratura civile e penale. Lo Stato deve dunque compiere un grande sforzo finanziario e organizzativo per la ricerca. Oggi, superate le difficoltà  più gravi per entrare nell’euro, un tale sforzo diviene possibile. Sorprende tuttavia che, a differenza dei paesi civili, nel nostro paese gli industriali privati non facciano la loro parte; i più ricchi preferiscono spendere somme enormi per i calciatori – circenses – piuttosto che per gli scienziati e nella ricerca spesso si mettono in fila per mungere quella stessa vacca pubblica che per altri versi maledicono.

Trent’anni fa il quadro era diverso: in certe industrie, come la chimica e l’elettronica, la situazione era incoraggiante. Oggi è il deserto e tocca allo Stato dare la sferzata, in diverse direzioni: riforma degli enti di ricerca, irrobustendo i legami con l’università, dove la ricerca di base dev’essere rifinanziata, e introduzione di nuovi incentivi per l’industria privata, inclusa l’esenzione fiscale per le somme destinate alle attrezzature di ricerca e all’assunzione di ricercatori. Contemporaneamente va riformato il sistema pubblico e privato della formazione, in particolare il sistema degli istituti di formazione professionale.

Nella riforma della ricerca bisogna a ogni costo evitare passi falsi, che avrebbero conseguenze disastrose. Diversi colleghi e io pensiamo che sarebbe molto utile se l’Accademia dei Lincei, un’istituzione super partes, d’intesa con i ministri per la Ricerca e per l’Industria, promuovesse un dibattito approfondito, con fini operativi, invitando i membri della comunità  scientifica che hanno adeguate esperienze di ricerca in Italia e all’estero a esprimere in tempo utile giudizi e suggerimenti per la riforma del sistema. Per porre il dibattito su un piano preciso e concreto sarebbe auspicabile che i lavori venissero aperti dai due ministri, che potrebbero illustrare i loro progetti di riforma mettendo in evidenza i punti problematici.

E’ un periodo straordinariamente delicato e importante. Se non c’impegniamo a fondo per riorganizzare la ricerca, nel periodo medio la nostra sorte è segnata: lo sviluppo economico e, quel che più importa, lo sviluppo culturale e civile, incluso il miglioramento della qualità  del lavoro, risulteranno compromessi. Saremo condannati a vivacchiare nella palude.

La Repubblica 2/11/1998

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Paolo Sylos Labini
nomail@nomail.nomail

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