
Le 3 componenti della crisi sono la creazione di liquidità da parte delle FED, la delocalizzazione (modello Walmart, ma poi anche Apple, ecc) e l’espansione del credito, e in particolare l’espansione della possibilità di usare il valore del capitale (es. il valore delle case) per ottenere ulteriori soldi.Domanda. ma quindi cosa sarebbe successo senza la cartolarizzazione?
Risposta. semplicemente quello che è successo sarebbe successo prima.
Domanda. in una nostro scambio precedente, lei aveva argomentato che la visione di marxisti come Kliman, che attribuisce la crisi alla caduta del saggio di profitto, è da considerarsi alla fin fine reazionaria perché non vede il calo dei salari negli USA, che però c’è stato. Cosa ha da dire al riguardo?
Risposta. a me non piace proprio l’approccio di Kliman alla teoria del valore di Marx e alla caduta del saggio di profitto, approccio che peraltro è stato criticato da tanti altri, ad esempio da Simon Mohun e Roberto Veneziani. Guglielmo Carchedi, che per me è più serio di Kliman, in un articolo apparso anche su sinistrainrete.info, dice che effettivamente la caduta del saggio di profitto non si vede, ma se prendiamo in considerazione i settori produttivi si vede.
Ma allora qui comincia a diventare una cosa complicata, perché cosa significa settore produttivo in un sistema come quello di oggi? E’ vero che oggi i profitti calano, ma calano perché è calata la domanda, quindi anche la capacità produttiva utilizzata. La capacità produttiva inutilizzata deve essere contabilizzata nel costo di utilizzo del capitale e quindi i profitti calano, ma non per i motivi sottolineati da Kliman. Perciò reputo le visioni per cui che la distribuzione dei redditi non conti come profondamente reazionarie, di destra direi.
Domanda. Analizzando l’andamento dell’economia mondiale, si può notare che l’economia americana, seppur in maniera ancora debole, appaia in ripresa, mentre la maggior parte delle economie europee arranca. à‰ quindi sensato pensare che vi siano elementi peculiari dell’Unione Europea e dell’Eurozona che hanno contribuito ad aggravare la crisi. Quali sono questi elementi e qual è stato il ruolo da essi giocato? Più in generale, per alcuni l’UE è una struttura neutra, con anzi un potenziale di maggiore democratizzazione, per altri è un’istituzione di classe e uno strumento di imposizione di politiche conservatrici. Qual è il ruolo di classe giocato dall’Unione Europea?
Risposta. Intanto occorre dire che gli Stati Uniti sono un paese essenzialmente importatore, a differenza dell’Europa, o meglio dell’Eurozona, che è tendenzialmente esportatrice netta. Per questo sostanzialmente la dinamica della ripresa europea, in particolare adesso che si è installata la deflazione sia dal punto di vista dei bilanci che da quello salariale, deve dipendere dalle esportazioni: infatti non avendo strumenti di stimolo della domanda interna, non essendoci dati di incremento né per quanto riguarda gli investimenti né dal punto di vista dei bilanci pubblici, non può che dipendere dalle esportazioni.
Al contrario, negli Stati Uniti sono sopravvenuti dei meccanismi che hanno permesso certe articolazioni. Innanzitutto gli USA hanno radicalmente cambiato la loro posizione internazionale, hanno drasticamente ridotto il loro deficit estero. E come è successo ciò? Non perché le imprese americane abbiano deciso di rivedere le loro strategie di outsourcing, almeno non in maniera sostanziale. Voglio dire, in alcuni casi è successo, si sono accorti che c’erano delle disfunzionalità e che la fonte di queste disfunzionalità era in Cina, essendo che è lì che avvengono la maggior parte di rilocalizzazioni, ma i cinesi sono prontissimi a fare tutto quello che possono per ovviare questo problema, in quanto è nel loro interesse continuare ad esportare e quindi hanno bisogno che le imprese americane e le loro associate cinesi siano in condizione di produrre.
Uno dei fattori più rilevanti in questo cambiamento della posizione internazionale degli Usa è stata proprio la Cina, la quale, in particolare a partire dal 2009, è diventata una grande importatrice, una “divoratrice” di materie prime e derrate alimentari, cosa che ha rimesso in moto tutto il meccanismo minerario americano, e questo si è connesso con le zone industriali del Michigan, che hanno ricominciato a produrre macchinari. Insomma questo ha ridotto le importazioni statunitensi, ha stimolato gli investimenti interni degli stati per quello che riguarda le estrazioni minerarie ma anche, per dire, del legname dal Minnesota, o le derrate alimentari.
La Cina ha aumentato così tanto le sue importazioni perché punta all’acquisizione di competenze tecnologiche, anche se per questo aspetto rivolge la sua attenzione più verso il Giappone e l’Europa, in particolare la Germania. La Cina ha messo in moto tutta la zona dell’Amazzonia, vuole trasformare la Foresta Amazzonica in un campo di soia, vuole creare lungo il Rio delle Amazzoni un asse attrezzato con porti e ferrovie per facilitare il trasporto, e anche questo si collega, in un modo o nell’altro, con le industrie americane.
Insomma tutto questo ha aiutato la crescita americana, anche a livello statistico, in quanto statisticamente le importazioni entrano con un segno meno nel calcolo del Pil. Inoltre non si può dimenticare che comunque che negli Stati Uniti vi è stata, almeno fino al 2010, una spesa pubblica reale molto più sostenuta che altrove.
Detto questo, tuttavia, non bisogna dimenticare che ci sono le crisi degli stati, delle città (come Detroit, ad esempio, ndr) insomma io su questa ripresa americana non ci conterei più tanto. Senza contare che Larry Summers (economista ed ex Segretario al Tesoro sotto Clinton, ndr) ha dichiarato che per assicurare la stabilità della ripresa abbiamo bisogno che venga fuori una nuova bolla speculativa, che una bolla è necessaria per riuscire a sostenere tutta questa spesa.
Insomma il modello non è cambiato, ci si basa ancora unicamente sul consumo, anche il meccanismo finanziario che ha dato l’innesco alla crisi non è cambiato: una volta le banche operavano attraverso le imprese, ovvero prestavano prevalentemente alle imprese e solo secondariamente ai consumatori, mentre oggi operano direttamente attraverso il credito al consumo, i prestiti sono fatti con l’intenzione di essere cartolarizzati e rivenduti (il cosiddetto modello “originate-to-distribute”) e questo modello non è cambiato con la crisi, anzi ne è uscito rafforzato.
L’Europa, d’altro canto, è più focalizzata sulle esportazioni, che sono viste, soprattutto da alcuni paesi dell’eurozona, come una soluzione al problema della domanda interna, e questo è un fatto gravissimo, è sostanzialmente un sistema neomercantilista. Ora, non tutti i paesi europei condividono questo approccio neomercantilista: l’Inghlterra ad esempio ne è completamente estranea, e calmiera almeno in parte il deficit estero con importazioni di capitale attraverso il ruolo della City.
Anche la Francia, che ha completamente perso la capacità produttiva di sostenere delle esportazioni nette, è al di fuori di questa logica. La Francia è molto più vicina alla situazione inglese di quanto lo sia a quella tedesca o italiana, per dire. La questione è che l’Europa non può essere considerata come un’entità unita, una confederazione, bisogna analizzare paese per paese e la Commissione Europea deve essere vista come il ring in cui i singoli paesi si prendono a pugni.
La commissione ogni tanto svolge la funzione di arbitro, con i paesi piccoli sostanzialmente, mentre per quanto riguarda i paesi più grandi, una volta si schiera con uno e una volta con l’altro, alcuna volte con la Francia (poche, in realtà ), un’altra con la Germania. Per quanto riguarda il capitale francese bisogna tenere conto che ormai è prevalentemente capitale finanziario, compreso quello industriale, le industrie francesi sono piene di attività finanziarie fino al midollo. Non è più interessato alle esportazioni da un bel po’ di tempo, anche se fino a poco tempo fa lo sosteneva, probabilmente per fare star buoni i sindacati. I francesi sono su un terreno più britannico, giocano una partita per l’egemonia finanziaria, che vogliono rafforzare attraverso un rapporto più stretto con la Germania, un giochetto che però non gli sta riuscendo molto.
I paesi mercantilisti veri e propri sono sostanzialmente quattro o cinque: sicuramente la Germania, ma ancora prima delle Germania, in rapporto alla popolazione e al reddito pro capite, l’Olanda. Poi abbiamo, ad un livello più basso, il Belgio e il Lussemburgo (anche se il Lussemburgo non conta in quanto ha un surplus naturale datogli dall’essere un paradiso fiscale), e poi l’Austria, anche se prevalentemente per via dei suoi stretti legami con la Germania, ed infine l’Italia. Questi sono i paesi neo-mercantilisti veri e propri, e sono tutti legati a doppio filo con la Germania.
Ci sono poi i paesi scandinavi, che hanno da sempre una strategia molto basata sulle esportazioni, in particolare verso paesi extra-europei, e che oggi sono in una crisi profonda che ha il suo fulcro nella Finlandia.
La strategia tedesca è, in sostanza, di aggirare l’Europa. Gli altri paesi europei vanno bene fino a che creano esportazioni nette nei confronti del resto del mondo, ma non devono mettersi tra i piedi per quello che riguarda le grandi strategie, che riguardano Cina, Russia, Turchia, Iran.
La Germania punta molto ad una grande espansione in quelle zone. Ad esempio i tedeschi sono molto favorevoli ad una ristrutturazione dell’economia russa, che sarebbe una grandissima fonte di importazione di materiale tedesco, vorrebbero la creazione di un collegamento Russia-Cina. Questo è il loro obiettivo: sono convinti che l’Europa sia roba vecchia, tradizionale, che può essere gestito se crea surplus, ma la strategia principale è altrove.
Questo è il vero conflitto, e con la Francia che punta ad una soluzione più “all’inglese”, ovvero attraverso una crescita finanziaria, l’unico paese che per dimensioni potrebbe tener testa alla Germania sarebbe l’Italia. Ma l’Italia non ci pensa nemmeno. In Italia regna la visione per cui l’uscita dalla crisi può arrivare soltanto attraverso le esportazioni, il che è palesemente falso, in quanto ci sono già tre casi in Europa che mostrano il contrario: il primo è l’Olanda, che in questo momento è arrivato ad una quota di esportazioni nette sul pil del 10% (per capirci, la Germania ha solo il 6%) e ciononostante è in recessione, con una crescita negativa dell’1% e un tasso di disoccupazione dell’8%; poi abbiamo la Finlandia, anche lei in grave recessione causata anche dalla profonda crisi tecnologica (la Nokia, ben prima di essere acquisita dalla Microsoft, aveva già trasferito il suo centro di ricerca in Cina alla ricerca di economie di scala che la piccola Finlandia non poteva offrirgli); e infine abbiamo la Svezia, che sin dagli anni ’40 ha una tradizione di esportatrice netta e oggi ha un surplus con l’estero del 6-7% eppure un tasso di disoccupazione dell’8%. Insomma se non ci riescono questi paesi a sostenere una ripresa attraverso le esportazioni come può pensare l’Italia, un paese con 59 milioni di abitanti, di supplire alla carenza di domanda interna attraverso le esportazioni?
Ora, la questione di classe. C’è una sola cosa che tiene insieme tutte le differenti componenti capitalistiche europee, ed è la deflazione salariale che viene garantita dall’Euro, e qui non ci son santi, sono tutti d’accordo. L’accordo è di tenere in piedi la deflazione salariale, processo portato avanti anche attraverso la deflazione della spesa pubblica e in generale la riduzione di tutti i vari aspetti del salario, comprese le pensioni. Ovviamente questo processo funziona in maniera differenziata, e ci sono paesi che ci riescono meglio di altri: la Germania è stato il paese più efficiente per quanto riguarda il rapporto salari-produttività, mentre alla Francia è riuscita molto meno, e il che è ironico visto che l’idea della “deflazione competitiva”, ovvero della compressione salariale per aiutare le esportazioni, è un’idea francese, proposta dalla fine degli anni ‘8o da Delors e tutta quella gente terribile.
Insomma, io dubito che le varie classi capitaliste europee abbiano un interesse nell’euro in quanto tale, a prescindere da questo ruolo nella regolamentazione dei rapporti di classe interni. Se salta questa componente unificante, salta tutto.
(Il Manifesto, 22 aprile 2014)
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