
Ci ha lasciato Giorgio Ruffolo. Per salutarlo pubblichiamo il suo intervento in occasione della commemorazione di PSL in cui ripercorre l’amicizia con PSL e la condivisione di tante bataglie culturali e politiche.
Fu proprio qui, al Ministero dell’Agricoltura, che conobbi Paolo. Tanto tempo fa. Laureato da poco, lavoravo all’Ufficio studi della Banca Nazionale del Lavoro e cercavo dei libri in quella meravigliosa biblioteca, praticamente la più importante di economia, a Roma. C’era la bibliotecaria, un’anziana signorina, di rassicurante ed efficiente lentezza. C’era un maestoso usciere. C’era un bel gattone nero. E c’era, naturalmente, Paolo. Io cercavo la History of Economic Analysis di Schumpeter. Figurarsi, era il suo maestro, uno dei suoi maestri, un altro era proprio lì, Breglia, il Direttore della Biblioteca. Di Schumpeter mi parlò a lungo, mi anticipò le cose che poi rilessi su “Oligopolio e progresso tecnico”, che è del 1964, allora eravamo nei primi anni cinquanta. Della differenza che lui stabiliva tra il concetto di concorrenza perfetta, formale e astratto, e quello di competizione, storico e realistico. Parlammo di Polanyi. E di Roschildt, non il banchiere, ma l’economista, di cui avevo già sentito da Federico Caffè. Anche lui diceva che la competizione capitalistica non è una piazza d’armi e di eleganti evoluzioni dove, come dice Dobb, “menti incorporee incontrano fantomatici oggetti di scelta”. Era un campo di battaglia. E le leggi economiche erano, come i piani di battaglia, ipotesi che dovevano misurarsi con la realtà del combattimento, esponendosi, come diceva Popper, alla falsificazione. Non leggi fisiche. Del resto, anche le leggi fisiche avevano abbandonato da tempo il determinismo.
Dagli incontri con Paolo, come da quel primo, si usciva carichi di pensieri da svolgere, da ordinare, da assimilare, da gestire. Sempre in eccesso rispetto alle mie capacità. Insomma, incontri inflazionistici. Paolo s’infervorava, Divagava. Si indignava, anche. E improvvisava le sue metafore.
Ce ne furono tanti, di quegli incontri, che oggi mi mancano molto. E ci furono occasioni importanti per lavorare insieme.
Una occasione fu il petrolio, Dopo la Banca ero andato a Parigi all’OECE, e di lì ero tornato a Roma, su iniziativa di un comune amico, Giorgio Fuà, che mi presentò a Enrico Mattei. Paolo aveva partecipato con Giuseppe Guarino a un’importante missione in America per studiare la legislazione petrolifera americana. Con Giorgio Fuà anche io fui inviato in America da Mattei. Dovevamo capire le tecniche di programmazione delle grandi imprese americame. Riferii a Paolo dei risultati di quella missione. E parlammo anche del rapporto dell’ECE di Ginevra, al quale Fuà aveva collaborato, sul meccanismo di formazione dei prezzi del petrolio praticato dalle Sette Sorelle, che pemetteva una gigantesca accumulazione, grazie alla differenza tra il prezzo fissato sull’alto costo delle produzioni americane e i costi infimi del petrolio estratto dagli immensi giacimenti medio orientali. Una rendita poderosa: altro che quella del metano italiano, denunciata dai nostri liberisti confindustriali: che, comunque, permise di alimentare di una energia ad alto rendimento e di basso prezzo l’ industria italiana del Nord.
Una occasione di incontri frequenti e ravvicinati fu la programmazione: quella che per i realisti scettici continua ad essere rappresentata come una crociata dei fanciulli, mentre fu una grande occasione storica in gran parte perduta. In quella occasione ebbi la fortuna di lavorare al suo fianco insieme con altri protagonisti insigni, come, ancora, Giorgio Fuà, Pasquale Saraceno, Antonio Giolitti. Di quell’epoca ricordo la Nota Aggiuntiva di La Malfa (Ugo|), scritta in gran parte dal giovane Luigi Spaventa, sulla base di conversazioni con Fuà e con Sylos Labini, che poi svilupparono quei temi nel loro libretto aureo, “Idee per la programmazione economica”. Era stato scritto per dare una base al lavoro di programmazione che avevamo cominciato a sviluppare al Ministero del Bilancio, sotto la responsabilità politica di Giolitti e quella tecnica di Pasquale Saraceno, personaggio intelligentissimo e affascinante ma inquieto e dislocante, basti dire che resisteva all’idea di scrivere un programma, ogni tanto produceva documenti disparati, facendo impazzire Antonio Giolitti. Per questo chiedemmo aiuto ai due dioscuri, che redassero un documento programmatico chiaro e distinto.
Ma non voglio infierire con i ricordi. Voglio invece accennare a Paolo Sylos Labini come grande economista. Per dire due cose soltanto. La prima è che almeno su tre fronti, quello della teoria delle forme di mercato, della teoria dell’occupazione, della teoria del sottosviluppo, avrebbe ben meritato il premio Nobel. La seconda cosa riguarda un tema che costituisce un leit motiv della sua opera e che il suo allievo Alessandro Roncaglia ha sviluppato nel suo bel libro: “il mito della mano invisibile”. Il tema del confronto tra economia classica ed economia neo classica. L’analisi stringente, del maestro e dell’allievo, suscita in me una domanda. Come mai un paradigma così manifestamente confutato e scaduto sul piano scientifico come quello neo classico e marginalista continua a dettar legge nel pensiero dominante dell’economia apolitica? Non certo in virtù della sua capacità esplicativa della realtà. Da quel punto di vista esso ci appare come una clamorosa contraffazione della realtà capitalistica. La spiegazione mi pare traspaia dalle pagine di Sylos Labini, come da quelle del suo grande amico Federico Caffè. E’ la sua funzione ideologica. Spiegare che non c’è proprio niente da fare politicamente, che il mercato bisogna lasciarlo in pace, mama knows best, è il meglio per chi già se la passa bene. E’ un’ideologia simmetrica a quella marxista: lasciate fare la storia, la vecchia talpa ne sa più di voi. Invece la vecchia talpa non esiste e, quanto al mercato, ci regala un’economia che genera due processi distruttivi, dell’ambiente e della coesione sociale; e, dopo aver mercatizzato nella storia, dapprima i beni di lusso, e poi i fattori di produzione, terra e lavoro, e alla fine la moneta, nella sua funzione di pura accumulazione finanziaria, invade oggi l’intera società civile: arbitri e giocatori di calcio compresi, per non dire altro.
Non posso chiudere questo intervento senza parlare dell’impegno civile di Paolo. Il quale non si fermava alle soglie della politica. Non della politique politicienne cui rimase sempre estraneo. ma di quella che un suo illustre amico, Paul Sweezy, definiva “storia del presente”. Vi entrava anche in qualità di imprecatore. Come in economia il suo modello era Adam Smith, così in politica era senz’altro Dante Alighieri, il più grande imprecatore che questo nostro paese abbia avuto.
Questo nostro paese! Dei suoi non rari vizi Paolo Sylos Labini è stato fustigatore implacabile. Vizi storici nati nella servitù seguìta alla perdita dell’indipendenza politica nel tardo rinascimento, dopo la decadenza delle istituzioni comunali nelle Signorie autocratiche. Vizi rinnovatisi nella debolezza di una tradizione liberale che anche ai suoi sommi vertici, come in Benedetto Croce, ha sacrificato al fascismo rampante; come oggi in personaggi di grande formato che scambiano il folklore con l’eleganza. Vizi che si rivelano nel machiavellismo deteriore e nella spavalda astuzia del trasformismo lazzarone.
Questo nostro Paese! Con la sua illegalità onnivora, con la sua proliferazione di furbi, furboni e furbetti.
Eppure, proprio come il padre Dante, Paolo amava profondamente l’Italia, e non aveva mai perduto le speranze del riscatto, il rispetto del suo grande passato, la tenacia di una grande battaglia per il suo futuro. Citava spesso l’esempio dell’Inghilterra, una nazione tra le più corrotte d’Europa ancora nel Seicento. Si diceva che vi si mangiasse meglio e chi vi si rubasse di più. In uno dei due sensi è certamente peggiorata.
Sarebbe mai venuto per noi, si domandava Paolo, il momento di quel riscatto? Nonostante l’intenzione sprezzantemente conclamata di dimettersi da italiano per assumere la nazionalità portoghese, o finlandese, nella sua ultima intervista confessò: “qualche speranza di non essere costretto a farlo, ce l’ho”. A lui, grande intenditore di musica jazz, veniva in mente quel brano di Duke Ellington, Mood Indigo: passione e tristezza. Si, tristezza, ma anche passione. “Alla mia battaglia di socialista liberale, concludeva, comunque, non rinuncio”.
.
Average Rating